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Intersezionale

Illustrazione sulla Cura

Chi avrà cura di noi? Attivarsi a partire dalle parole

Illustrazione di Silvia Marsili

Malattia, virus e contagio sono alcune tra le parole che negli incredibili mesi passati hanno riempito le nostre orecchie fino quasi a saturarci. Dai mass media alle chiacchiere in fila al supermercato, l’attenzione collettiva non ha potuto fare a meno di concentrarsi sulla vulnerabilità tanto del nostro corpo quanto del nostro sistema sanitario e sociale.

Se è l’intero mondo a rivelarsi malato, in cosa riporre le nostre speranze di guarigione?

Chi, o cosa, avrà Cura di noi?

Forse la chiave è nel concetto stesso di Cura.

Una parola impegnativa

Per addentrarci nei vicoli di questa riflessione, mi si conceda il vezzo di scegliere l’ingresso più classico e maestoso: la parola. “Cura” è una parola che mi trasmette, già col suo suono, una sensazione come di delicatezza.

Possiamo anche provare a pronunciarla con un tono violento, proviamo. Ma niente da fare: non sta affatto bene vestita così.

Eppure è una parola che vuole essere ben scandita, così da essere ascoltata e non rischiare di morire tra il palato molle e la punta della lingua. Cura.

Lungi dal potere e volere fare una disamina etimologica come si deve, ho provato a osservare più da vicino questo vocabolo. Ovvero, perdonatemi il gioco, mi sono presa Cura della parola Cura. Difatti, le sue radici antiche ci portano subito a un significato intrigante: “osservare”.

Quindi la Cura è posare attivamente lo sguardo su qualcosa. Non solo: la Cura è uno sguardo che accarezza in maniera delicata e amorevole.

Sì, “amorevole”, perché nella sua forma latina più antica deriva da coera, espressione usata proprio in un contesto di relazioni di amore e amicizia. Addirittura, una probabile maternità sanscrita sembrerebbe aggiungere alla pozione un ingrediente davvero sopraffino: kavi, che significa “saggio”. Già a questo punto, dovremmo poter tranquillamente affermare che la Cura è responsabilità.

Dal semplice vedere, la Cura ci porta alla complessa scelta di osservare, ascoltare e quindi rispondere con «oculato discernimento, moderazione, equilibrio intellettuale e spirituale, e una conoscenza delle cose acquisita soprattutto con la riflessione e l’esperienza», perché questa è la definizione di “saggio” secondo il Treccani. Robetta, insomma.

Lettere di Legno

Una parola in tendenza 

Andando a curiosare in Google Trends (strumento che rivela le frequenze delle parole nei motori di ricerca del web) ho incontrato una notevole impennata relativa alla parola Cura intorno alla metà dello scorso marzo. Per essere precisa, è stata la più grande impennata di sempre!

Data la bellezza e profondità di questa parola, per un attimo ho ingenuamente sperato in un letterale e collettivo salto di coscienza innescato dallo stravolgimento della pandemia. Poi, mi sono ricordata del d.l. #CuraItalia, pubblicato in Gazzetta Ufficiale proprio il 17 marzo. E sono ripiombata a terra.

Non per essere tragica, ma volete mettere il mondo che si salva in un’istantanea mistica trascendenza confrontato con la snervante pesantezza della macchina politica?

Curiosamente, appena due giorni prima dell’uscita del suddetto decreto, la parola Cura aveva già trovato un posticino speciale in prima serata a Che Tempo Che Fa: con Diodato e la sua intensa interpretazione de La Cura del maestro Battiato. Uscito per la prima volta nel ‘96.

E’ un brano fondamentale, che supera le correnti gravitazionali del tempo e delle mode. Troppo spesso sfruttata come banale canzone d’amore tra due individui, La Cura potrebbe invece veicolare un potentissimo messaggio di amore universale.

Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza.

In tale occasione, Fazio sottolineò la necessità di affidarsi agli artisti per dire grazie a quanti si trovavano impegnati in attività di Cura per via dell’emergenza sanitaria.

E il capolavoro di Battiato, nonostante così inserito nella retorica tipica del programma e del periodo in generale, con gli schermi alle spalle di Diodato che proiettavano dissolvenze di passanti e operatori sanitari in mascherina alternati a tricolori svolazzanti e paesaggi italiani randomici che parevano screensaver di Windows, potrebbe aver assolto almeno un pochino la sua funzione catartica.

Franco Battiato

E chi si cura di chi cura?

Ma, «quaranteni e quarantene»(cit. quel genio di Zoro)! Crediamo davvero che basti una canzone per ripagare il debito di gratitudine verso tutte quelle “eroiche” categorie lavorative?

Evidentemente, non sono bastati nemmeno i provvedimenti del governo, perché appena l’allentamento delle restrizioni l’ha permesso sono scese in piazza un po’ tutte, da quella dei giovani medici agli infermieri fino agli abilitandi in psicologia, farmacia e biologia.

Viene davvero da domandarsi chi si prenda Cura di chi Cura. Non solo, verrebbe quasi da ringraziare quel microscopico virus per star funzionando da mezzo di contrasto, delineando con nitidezza spaventosa le fragilità del nostro sistema, a partire da quello sanitario, offrendoci quindi un’inaspettata opportunità di rivoluzione. 

In particolare, come dottoressa in psicologia, nutro una grande frustrazione rispetto al sistema nazionale di salute e benessere mentale. Numerosi studi (ad es. il paper di Sadhika Sood pubblicato ad aprile su rhime.in) hanno lanciato l’allarme sostenendo che durante e dopo una pandemia è inevitabile che il sistema di salute vada in crisi e che, pertanto, sarebbe urgente un piano d’azione magistrale per prevenire, supportare e curare tutte e tutti. Senza lasciare indietro nessuno.

A partire da chi si è ammalato, naturalmente, e dall’insieme degli operatori sanitari in prima linea che rischiano pesanti effetti a lungo termine tra cui stress, ansia, depressione, sindrome di burnout, compassion fatigue e disturbo post-traumatico da stress.

E in tutto ciò, nonostante l’eclatante utilità socio-sanitaria, la categoria degli psicologi e psicoterapeuti continua a essere poco considerata, scarseggiano sportelli d’ascolto funzionanti negli ospedali, le assunzioni nel pubblico sono rarissime, il percorso di studi è esageratamente lungo e teorico, i tirocini non sono pagati e i liberi professionisti, la cui maggioranza ha offerto prestazioni gratuite durante l’emergenza, sono pesantemente tassati e sprovvisti di adeguati ammortizzatori sociali.

Mascherina e Cura

Le parole sono importanti”

Se una canzone non basta a salvarci le penne, non vuol dire però che l’arte non abbia un enorme potere di nutrimento e Cura. Non vuol dire che, a sua volta, non vada curata. Anche i lavoratori dello spettacolo (Diodato compreso) stanno protestando sui social e sono scesi in piazza lo scorso 21 giugno, vestiti a lutto e armati di un significativo silenzio.

Oltre a ribadire la dignità e i diritti che andrebbero ovviamente garantiti a questa categoria, per concludere la mia riflessione vorrei gettare un fascio di luce sulla valenza terapeutica dell’arte: che si tratti di cultura, letteratura o arti performative, visive, online e digitali, è la stessa OMS (con il report del 2019 a cura della Health Evidence Network) a dare ormai per dimostrato il contributo positivo delle arti negli interventi di prevenzione, promozione e trattamento della salute.

In particolare, la connessione tra la poesia e i processi di Cura, tutt’altro che di immediata comprensione attraverso parametri contemporanei, si può facilmente riconoscere osservando le società arcaiche e tribali, nelle quali la figura del poeta e quella del guaritore sono spesso sovrapposte a configurare quella del «professionista della parola», che utilizza la parola come strumento di Cura e per custodire e trasmettere il sapere della comunità.

Ciò è infatti visibile nelle etimologie dei nomi del poeta in moltissime culture, dall’antica India all’antica Roma, come il latino “vates”, che richiama sia funzioni poetiche che di profeta e di guaritore (si vedano ad es. gli studi etnofilologici di Francesco Benozzo). 

Ma la poesia non può esistere senza la comunità. È la comunità stessa ad attribuire al poeta la responsabilità, per dirla con Freire, di «nominare il mondo» con totale dono di sé. E se abbiamo avuto la trascendente percezione di essere un tutt’uno nei primi giorni del lockdown, ben presto l’abbiamo messo in discussione, perché sono venute a galla le innumerevoli disuguaglianze sociali che lacerano tutti i sistemi “glocali”. E ancora di più oggi, che stiamo tornando a intasare le strade delle città, tale senso di comunità rischia di essere solo l’ombra di un sogno.

macchina da scrivere

Perciò (ormai ex) «quaranteni e quarantene»! È evidente che abbiamo la missione di costruire una solida comunità planetaria, attraverso la Cura dell’ambiente che ci ospita, delle persone più vulnerabili, delle nostre menti e delle nostre solitudini, cercando di incontrarci con approfondita saggezza per dialogare e lucidare il nostro sguardo sul mondo.

Alleniamo il cuore ad affacciarsi a ogni momento, a ogni incontro, cantando con voce piena: ti proteggerò dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo.

A partire da ora, dalla prossima volta in cui ci guarderemo allo specchio, comprendendo che ogni istante, ogni fenomeno è il nostro specchio. Avrò Cura di te.

Viola Margaglio è dottoressa in Psicologia Scolastica e di Comunità, artista spoken word e rapper con lo pseudonimo di lupa_de_mar. Vive nel quartiere di Ostia dove ha fondato il PoetryClan, collettivo che promuove in dialogo col territorio eventi di arte, poetry slam e hip-hop.

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