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Intersezionale

Luchadora sotto la pioggia

Re-inventare l’autonomia. L’esperienza di Lucha y Siesta


Michela Cicculli e Simona Ammerata (Casa delle donne Lucha Y Siesta)
Giada Bonu (Scuola Normale Superiore)

Il presente articolo è l’ estratto di un lavoro di analisi delle pratiche in essere presso la casa delle donne Lucha y Siesta e delle riflessioni emerse dalla ricerca dottorale di G. Bonu, condotta tramite periodi di etnografia partecipativa e interviste con le attiviste e le donne di Lucha.

Introduzione

Da oltre 12 anni l’esperienza della Casa delle donne Lucha Y Siesta mette al centro una sperimentazione radicale rispetto all’accoglienza e all’accompagnamento delle donne che escono da situazioni di violenza maschile e/o impoverimento, precarizzazione, marginalità sociale.

Lucha, in quanto spazio femminista che lavora al contrasto alla violenza di genere e casa rifugio, ha in questi anni elaborato una metodologia femminista nella definizione del servizio, che ruota intorno ai concetti di autonomia e autodeterminazione.

La domanda che guida questa sperimentazione è radicata nella relazione con le donne e tra le attiviste/operatrici. Il processo di definizione dei ruoli, dei percorsi, e delle strategie di intervento è dinamico e risponde a questo sforzo relazionale, che muta al mutare del contesto e delle persone coinvolte.


Lucha risponde al dato riscontrato durante una lunga esperienza negli sportelli di ascolto, che vedeva le donne esprimere un bisogno specifico di accoglienza e cura. L’occupazione di uno stabile nel quartiere Tuscolano rappresenta la risposta a questi bisogni, con l’apertura di uno sportello di accoglienza e una casa rifugio nella quale, a fronte dei 25 posti garantiti dal Comune (quando secondo le Convenzione di Istanbul dovrebbero essere su Roma almeno 300), Lucha ne mette a disposizione 14.

Nel tempo sono state numerose le trasformazioni della forma organizzativa interna, dello sportello, dei progetti esterni (come l’assegnazione di un centro anti-violenza e casa di semi autonomia in altri stabili del territorio). Il percorso di autonomia di ogni donna che approda a Lucha è unico: non risponde ai tempi pre-definiti tipici dei servizi istituzionali ma segue i bisogni, le difficoltà, le specificità di ogni donna – nello sforzo di co-costruire strumenti di empowerment e autodeterminazione che consentano alla donna di scegliere e modellare la propria vita oltre la violenza.

La metodologia femminista elaborata nella relazione con le donne ha portato all’attivazione di corsi per operatrici anti-violenza all’interno dello spazio e alla costante ri-organizzazione dello spazio e delle sue funzioni in accordo con la comunità di donne che lo vivono.

In questo senso, due esempi sono rappresentati dal regolamento e dalle assemblee di gestione. Il regolamento è uno strumento attraverso il quale a cadenza annuale attiviste e donne che vivono a Lucha ri-scrivono e negoziano le regole di convivenza interna, mettendo sul piatto le proprie differenze e trovando una mediazione che permetta di garantire il bene-stare di tutte pur accogliendo i conflitti che si generano.

L’assemblea di gestione, anche questa più volte rivista, è il luogo nel quale attiviste e donne che vivono a Lucha discutono settimanalmente la gestione della casa, delle iniziative, dei problemi interni.


Eppure, due situazioni di crisi, di natura completamente diversa, stanno mettendo nuovamente in discussione pratiche consolidate: da un lato l’attacco del Comune e la messa all’asta dello stabile; dall’altro la situazione di pandemia globale. Quest’ultima mette di fronte l’emergenza sanitaria alla la violenza di genere, tutt’altro che emergenziale. Eppure per forza di cose sono state emergenziali le risposte, nel momento in cui le donne hanno bisogno immediato di uscire di casa.

Lucha sperimenta ora forme di accoglienza diffusa sia politica (con l’incremento del numero delle attiviste/operatrici) che materiale (con la moltiplicazione degli stabili nei quali le donne seguite da Lucha sono collocate).

L’accoglienza è quindi un terreno da re-inventare, al mutare del tempo a disposizione di ognuna per elaborare il proprio percorso di fuoriuscita, e della sospensione del “fuori” (abitativo, lavorativo, formativo, relazionale) su cui il percorso di fuoriuscita era stato finora costruito.

Cosa significa costruire autonomia e autodeterminazione quando mancano gli spazi per poterlo fare?

E nel momento in cui la relazione operatrici/donne è de localizzata rispetto a Lucha, che forma prende questa relazione e quando avviene la – necessaria – rottura del cordone ombelicale?

Inoltre, si consolida il bisogno di alleanza con le associazioni e i centri del territorio, costruendo una rete in grado di coordinare e co-gestire il momento di emergenza.

In questo senso va anche la scelta di Lucha di entrare nella rete DiRe. Ancora più vivamente emerge il bisogno di risorse e spazi messi a disposizione dalle istituzioni, finora carenti.
Dall’altro lato, gli ultimi anni segnati dalla minaccia di sgombero hanno costretto a un ripensamento radicale delle relazioni con le istituzioni (Regione e Comune ma non solo), ma soprattutto alla creazione di beni comuni femministi che ripensino la proprietà in chiave collettiva e comunitaria.

La campagna di raccolta fondi per un grande azionariato popolare di acquisto dello stabile e la negoziazione con la Regione aprono infatti all’immaginazione di un nuovo tipo di proprietà femminista, che pur lavorando in relazione sia in grado di preservare indipendenza e autonomia di intervento.

La metodologia femminista nel contrasto alla violenza di genere    

 Anche se attraverso una pluralità di funzioni, pratiche e strumenti, il centro della riflessione di Lucha Y Siesta è quello della violenza maschile contro le donne. Questo nodo ha recentemente scatenato una nuova ondata di mobilitazioni dall’Argentina all’Europa ai Sud del mondo. Le attiviste di Lucha ne hanno fatto un terreno di riflessione politica ma anche pratica.
Situarsi nel campo della lotta alla violenza di genere implica confrontarsi con i servizi, le istituzioni, la legislazione esistente, e quindi con una prassi di intervento piuttosto consolidata. Nascendo da un occupazione, Lucha ha sperimentato un certo margine di libertà nella sperimentazione di nuove metodologie di intervento.



Sono almeno tre i pilastri che guidano la metodologia dello spazio: il posizionamento femminista; l’autonomia e l’autodeterminazione; il lavoro sugli strumenti di relazione/interazione.



A differenza di un generico impegno nel contrasto alla violenza di genere, la rivendicazione di un posizionamento femminista implica il recupero del senso politico dell’intervento. Non si tratta di un servizio di assistenza per donne in difficoltà, ma di uno strumento di azione politica diretta a fronte della lotta contro l’elemento sistemico della violenza, che in quanto tale innerva ogni declinazione del sistema neo liberale e capitalista. Questo posizionamento modella un approccio alla relazione con le donne, alla relazione con le istituzioni e agli obiettivi completamente diverso, nel quale il percorso di ripresa di una donna da una situazione di marginalità e violenza passa attraverso la messa al centro di se stessa nella propria traiettoria di vita. In questo senso, l’accoglienza non è intesa in maniera assistenzialista, approccio che di solito caratterizza i servizi tradizionali, ma è uno spazio di relazione femminista teso ad una trasformazione sociale in senso generale. 

Un luogo dove abbiamo istituito la pratica dell’assemblea di gestione, cioè le donne che vengono accolte dentro Lucha, rispetto a entrare in questi percorsi di uscita dalla violenza che non hanno un tempo, le donne stanno li quanto è necessario, un anno due anni. Nel frattempo si riprendono possesso della loro vita, intraprendono percorsi di autodeterminazione, di autonomia, accompagnate dalle operatrici, accompagnate dal collettivo. Ognuna di loro ha un percorso singolo e individuale che segue solo i suoi tempi, i suoi desideri, i suoi obiettivi. Ci sono donne che prendono titoli di studio, che lavorano, che acquisiscono professionalità, ci sono donne che partecipano a iniziative istituzionali, quindi c’è un momento che… non si chiama così per caso, al di la che stiamo vicino alla fermata della metro Lucio Sestio, però è un luogo dove si lotta, si combatte per i propri diritti ma c’è anche il tempo del riposo.

(Diario etnografico, LYS, 22-06-19) 

Prima di tutto, ciò che cambia è il tempo: a differenza dei percorsi nei centri tradizionali, il tempo necessario per recuperare energie e strategie di trasformazione della propria vita è modulabile a seconda della necessità della donna. Non esiste un arco di tempo predefinito, ma si lascia spazio alla possibilità che sia la donna stessa a maturare dentro di se il momento dell’uscita, per quanto questo sia sempre potenzialmente una cesura.


L’accoglienza, fondata sul concetto per cui “le donne con le donne possono”, affonda il proprio senso nella genealogia dei femminismi che a partire dagli anni ‘70 hanno costruito contro-servizi (per la salute, la sessualità, la violenza) a partire da una relazione paritaria fra donne.

 Secondo me anche la semplice comprensione intellettuale di un concetto come autonomia non è così scontato, non è così di immediata comprensione. Lo devi praticare. Devi riconoscere proprio la situazione di dipendenza da qualcosa e qualcuno, per avere quella spinta a valorizzare la tua autonomia. Perché quello, oltre le condizioni che ti sono date e che prescindono dalle tue scelte, è l’unica libertà vera che hai (IIR1, LYS, 37) 

Autonomia e autodeterminazione, dunque. Questi i pilastri che guidano la relazione di accompagnamento delle attiviste di Lucha con le donne accolte. Ogni percorso di fuoriuscita non risponde a un procedimento standard, ma è tarato sui bisogni e obiettivi di ogni donna, in relazione al proprio contesto e alle proprie possibilità. 

Autonomia innanzitutto fa riemergere le risorse che ogni donna ha… perché tutte ce l’hanno… e mettere in luce quali sono i propri valori, le proprie conoscenze, le proprie capacità… se rimetti in luce questa cosa allora puoi aprire un percorso di autonomia… perché allora seriamente farai una ricerca su: quello che mi piace, quello che desidero, quello di cui io ho una conoscenza… […] Perché se ti poni in questo modo nel mondo c’hai un aspetto, altrimenti sei sempre assoggettata ad altro, che magari è il tuo datore di lavoro, magari è il tuo fidanzato… questo… e non è un concetto così semplice da far capire, per niente proprio (IIR4, LYS, 53) 

Modellare il percorso di ogni donna intorno al concetto di autonomia significa investire in una trasformazione individuale, agire uno spostamento. La fuoriuscita dalla violenza implica l’acquisizione per le donne di un nuovo senso del proprio sè, al centro del proprio mondo e delle proprie scelte, sciolte da vincoli di dipendenza e assoluto bisogno relazionale. La consapevolezza dei contorni del proprio sè è un primo passaggio della definizione di scelte più chiare e rispondenti ai desideri individuali.

Proprio il desiderio, concetto cardine dei femminismi, torna come motore del cambiamento individuale e collettivo, dove spesso la possibilità di riconoscerlo e agirlo era stata precedentemente censurata.

Il secondo pilastro che orienta la relazione di accoglienza e accompagnamento è quello di autodeterminazione, ovvero della possibilità di poter scegliere per sé il proprio percorso di vita, fuori da manipolazioni, sopraffazioni e abusi.

Questi pilastri non sono entità astratte ma strumenti concreti nella relazione tra operatrici/attiviste e donne che fuoriescono dalla violenza.

Perchè la relazione abbia spazi concreti di manovra, una grande attenzione è data alla metodologia e agli strumenti di intervento. Per prima cosa, rispetto allo sportello – sia quello aperto all’esterno che nei colloqui individuali con le donne ospiti. Alcune attiviste, a seguito di una profonda e costante formazione in materia, sono anche operatrici. Ogni spazio di relazione è gestito/facilitato da alcune persone, il cui ruolo viene concordato e definito collettivamente. I colloqui con le donne si svolgono sempre in due: questo punto fermo risponde alla necessità di dividere il carico dell’ascolto e della cura, di avere a disposizione sempre più orecchie e sensibilità nella comprensione della situazione di una donna, e nell’avere cura reciproca anche della posizione dell’operatrice nella relazione di accoglienza. 

Noi siamo sempre in coppia. Questa è la nostra metodologia. Non si può lavorare da sola. Non fa proprio bene. Secondo me non fai bene il lavoro ma non fa bene neanche a te. Sembra strano ma è proprio così, stai in due, ascolti la stessa cosa, non necessariamente tutt’e due ascoltano la stessa cosa. Non proprio come percezione, ma magari una frase detta da una donna io l’ho sentita e tu no. E quindi quello è importante. Ma poi voglio dire significa che… è come se facessi un lavoro da tuttologa capito. Sei solo tu. E invece il mio pensiero insieme al tuo fa la differenza. (IIR4, LYS, 53) 

Consapevoli del carico che l’accoglienza e l’accompagnamento richiedono, la definizione degli sportelli e dei colloqui è accompagnata dal lavoro in equipe, ovvero dai momenti in cui collettivamente le operatrici si confrontano sullo stato dell’arte, sui casi, sulla propria condizione psico-fisica. La presa in carico collettiva aiuta a smorzare difficoltà e tensioni, conflitti e sofferenza personali che inevitabilmente coinvolgono anche le operatrici nel percorso di accompagnamento delle donne.

Attraverso una riflessione induttiva, nel tempo è emerso il bisogno di una figura esterna che mediasse il ragionamento collettivo, per questo è stata coinvolta una psicoterapeuta. 

Con il sostegno di una psicoterapeuta abbiamo cominciato a fare supervisione… e quindi… questa cosa ha cambiato molto i nostri rapporti e piano piano ha cambiato molto anche il nostro lavoro. Perché lì era lo spazio dove noi parlavamo delle frustrazioni, dei casi, ne parlavamo tutte assieme e quindi… rispetto all’accoglienza quello, e non smetterò mai di dirlo, sono degli elementi, dei passaggi determinanti. Se non c’è un’equipe, se non c’è una supervisione, quando tu lavori con il sociale, non vai da nessuna parte. (IIR4, LYS, 53)

La Casa delle Donne Lucha y Siesta a Roma è un luogo materiale e simbolico di autodeterminazione delle donne contro ogni discriminazione di genere. Un esperimento innovativo e riuscito: un progetto politico che promuove nuove formule di welfare e di rivendicazione dei diritti a partire dal protagonismo femminile; un progetto ibrido tra casa rifugio, casa di semiautonomia e centro antiviolenza; un progetto nato dalla lotta e dall’autorganizzazione delle donne che da più di 11 anni fornisce informazione, orientamento, ascolto e accoglienza.

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