
Racconto: Zara
? L’autore consiglia di leggere ascoltando: Midlake, “Young Bride”. The Trials of Van Occupanther. Bella Union, 2006.
Di Andrea Meli
Sarò. Sono. Ero.
Ho sedici anni e che volete, è il momento in cui le colpe vanno date agli altri, per qualsiasi cosa. Se piove, se prendi quattro in latino, se ti si buca la ruota del motorino. È il momento in cui è tutto giusto, almeno nei tuoi piani. Ti spicci a fare la somma delle ore per vedere cosa succederà, come i bambini che si sporgono dal balcone, e tante cose non le metti in conto. Per esempio che un giorno che stai lì a dondolarti verso l’orizzonte, qualcosa di violento ti mette spalle alla ringhiera, a guardare indietro. Prima del previsto, intendo.
E adesso, guardando indietro di soli cinque mesi, non vedo che Zara.
Siamo diventati amici a casa sua. O almeno, per me il giorno è stato quello lì. Metà settembre, ci conoscevamo da meno di dodici ore e lei si è tolta il reggiseno.

– Non ti scandalizzi, vero? – poi si è infilata nell’armadio e ha tirato fuori venti magliette. L’ho aiutata a scegliere e lei mi fa – si vede lontano un miglio che non ti piace lo sticchio.
Io non smettevo di arrossire. Poi mi ha baciato in bocca e fa:
– Che palle, usciamo?
Mi ha portato in un locale vicino alla Cala.
Era pieno di ragazze posate qua e là, con le maniche di camicia arrotolate e grossi boccali di birra nelle mani. Abbiamo la stessa età, io e Zara, ma lì dentro lei mi è sembrata immortale. Mentre mi riportava a casa mi ha preso tantissimo per il culo perché in mezzo a tutte quelle lesbiche io sembravo un frocetto vergine.
– Ma io sono frocio – le ho urlato da dietro il motorino – e sono pure vergine!
Lo vedevo come un problema? Be’, non era un problema proprio per niente. Eravamo seduti sulla moquette, sempre a casa sua, a postare tutto il nostro vissuto minuto per minuto su Instagram e Zara aveva questa teoria che il sesso non è più simbolo di emancipazione.
– Scopare il prima possibile, ripeteva e scuoteva la testa, chi lo dice che bisogna scopare il prima possibile?
Il problema, secondo lei, era questa fissazione che le cose debbano essere per forza positive o negative. Si truccava per uscire intanto, a gambe incrociate. Era in mutande e io ho visto praticamente tutto. Tutto quello che mi rimaneva da sapere su di lei.
– C’è qualche problema? – teneva gli occhi fissi nello specchio e non ha neanche aspettato la mia risposta – questi stronzi però non hanno un riferimento assoluto – ha detto – semplicemente perché non esiste. Hanno il loro riferimento, che è la loro frustrazione, la loro rabbia, la loro paura.
– O il cattolicesimo – ho aggiunto io.
– No amore, questa è una cacata totale. Hai detto una cacata.
Era di nuovo eterna, come nel bar per lesbiche. E io, davanti a lei, sentivo che ero vergine in testa, altroché. Era una cacata perché tutti giudicano. Tutti. E noi prendiamo il loro giudizio e lo usiamo contro di noi.
– Tu perché sei ancora vergine? – mi ha chiesto.
– Non lo so – ho risposto, e non lo sapevo davvero. Avrei potuto darla via in qualunque momento e forse pensavo a come mi sarei sentito una volta capito che non sarebbe tornata più.
Mi piaceva l’idea e mi ci trastullavo, ecco tutto. Zara ha alzato le spalle. Andava benissimo così e non dovevo dare spiegazioni. Per qualcuno il motivo stava nella mia integrità morale. Per qualcun altro nel mio essere sfigato. Ed era proprio questo ciò di cui ci saremmo dovuti liberare.
Parlavamo, studiavamo se avevamo l’acqua alla gola e poi uscivamo: Cala, Spasimo, Corso Vittorio. Camminavamo. Zara guardava avanti. Io guardavo lei. In sua presenza, la mia testa rasata a metà e il fatto che mettessi la matita sotto gli occhi mi facevano sentire la spalla comica di Beyoncè. Ero sicuro che sarebbe stata potente anche con una semplice camicia da notte.
Quando l’ho vista per la prima volta, a scuola, attraversava lo spazio senza attrito e tagliava in due la carne di chi le stava di fronte.
Iniziava il terzo anno di liceo e lei era arrivata dal nulla, come nelle serie americane in cui il nuovo iscritto si presenta alla classe e poi c’è sempre un banco vuoto che l’aspetta. A Palermo invece il nuovo arrivato è già seduto quando il prof arriva in classe, e dice solo presente mentre tutti guardano e parlano e si sentono improvvisamente legati da incrollabili sentimenti di amicizia.
Alla sua prima ricreazione nella nuova scuola ha scelto me. La divertiva il fatto che stessi leggendo un libro di divulgazione scientifica sul tempo. Ho cercato di spiegarle di cosa si trattasse, del fatto che il tempo è un’illusione legata alla produzione di calore, e lei mi ha detto che la incuriosivo più io del libro.

Il pomeriggio stesso ero da lei a vederla sfilarsi il reggiseno e a scegliere magliette. Una casa enorme, sul curvone prima dell’Addaura, in cui regnavano silenzio e profumo di candeggina.
– Vivo con mia zia – ha detto appena entrati e mi ha preso per mano. Non sapevo se chiederle qualcosa sui suoi genitori. Sentivo che sarebbe stata o una risposta molto lunga o nessuna risposta, che è quello che ho imparato in seguito di lei. Zara non risponde. Ti prende e ti porta da qualche parte, e quel giorno, appena dentro casa sua, mi ha portato nella sua stanza.
A volte mi sentivo in difetto. La mia vita, i miei genitori, era stato tutto così facile. Era da lì che proveniva la sua principale argomentazione per mettere in discussione i miei capelli decolorati e rasati solo da un lato, l’orecchino che ho fatto a dodici anni e la matita che ogni tanto mi davo sotto gli occhi.
– Esattamente, a chi ti stai ribellando? – secondo Zara era patetico sentirsi punk in una situazione in cui la miccia della contestazione si fosse completamente consumata – È come protestare per il diritto delle donne di portare i pantaloni, oggi. Capito? Non ti prenderebbero per uno completamente coglione?
Non che non ci sia bisogno di far sentire la propria voce, anzi. Il mondo secondo Zara è un covo di malati ficcanaso.
– Cosa c’è allora che non va nel mio stile? – le ho chiesto pieno da inspiegabili sensi di colpa. Zara si è distesa sul pavimento e ha fatto la candela. Non potevo che ammetterlo: essere gay nella mia famiglia è stato facile.
– È dalla famiglia che bisogna partire – ha detto mentre sforbiciava – il mondo è fatto di genitori rompicoglioni e la famiglia è la palestra in cui devi allenarti a esprimerti.
Anche sua zia ci cascava. Anche lei, con tutta la sua apertura mentale che le è costato quello che le è costato, ha le smanie da madre mancata. Zara la viveva come un modo per non abbassare la guardia, perché in amore si lotta. Anzi, soprattutto in amore. Me lo diceva come se le fossi venuto a consegnare la posta a notte fonda:
– Tu hai avuto il culo di non nascere in una famiglia di talebani – indicava i miei capelli, la mia matita e mi chiedeva come mi sarei sentito senza. Mi chiedeva di interrogarmi su chi fossi veramente, in assoluto. Se i miei genitori fossero stati come i suoi, io avrei avuto comunque la testa rasata a metà? Poi si è avvicinata e mi ha dato un bacio. Toccandomi i capelli mi ha detto che non dovevo più farmi quel taglio da idiota, né decolorarli.
– Primo, perché è passato di moda. Secondo, perché sono sicura che non corrisponde a quello che hai dentro.
A scuola qualche coglione faceva girare la voce che io fossi il suo cagnolino, che scopassimo – e qui Zara esclamava: Vedi? – anzi lei scopava me, visto che era più alta di almeno una testa e ogni sua gamba erano due delle mie.
Era il nostro migliore e più entusiasmante esercizio: liberarci del giudizio degli altri. Era chiaro che volevamo stare insieme mentre il tempo ci ingannava, ci aggirava, ci spingeva più avanti e si prendeva la colpa del nostro invecchiare. Perché sì, a sedici anni esiste la possibilità, per quanto infinitesimale, che qualcosa nella grandiosità dell’essere giovani si crepi.
– Non ti credere – mi ha detto Zara, ed era inverno appena iniziato, due mesi prima di adesso – invecchiare mi terrorizza. Però, cioè, ho troppa voglia di vedere come diventerò.

Ho percepito nella sua voce un po’ di paura, non lo so, e allora le ho svelato che mio padre è fissato con le locandine dei film degli anni ottanta: personaggi dal carattere bidimensionale, ritratti nella loro tipica espressione. Tutto al suo posto, immobile e colorato.
– Ed è così che io immagino il mio futuro – le ho detto sperando di metterle sicurezza.
– Ed è esattamente così che andrà – ha detto lei.
Nella mia locandina c’era anche la sua immagine: una Zara sfolgorante, a cavallo di un’enorme matita per gli occhi. Ma questo l’ho tenuto per me. Non so. In quell’immagine io rimanevo bidimensionale, mentre Zara teneva in pugno mucchi di universi paralleli. Invece ci siamo fatti un selfie lì, nel buio del suo balconcino, in balia di vento e salsedine.
– Scommettiamo che tra vent’anni, guardando questa foto, ci vedremo più giovani e più magri di come ci vediamo adesso? – Zara ha sollevato la felpa e ha aggiunto – E più maschi!
Era fiera di sé e io mi sono chiesto se mi avrebbe portato con lei, se mi avrebbe mai fatto vedere una foto di quando era piccola, se avrei avuto sempre e solo io l’onore di sentire quanto le fossero cresciute le tette. Mentre le toccavo il seno che in tre mesi era diventato un pelino più grosso, mi sembrava che l’episodio in cui lo vidi per la prima volta, quasi accennato, fosse entrato a far parte della mia infanzia. Questo invece sì, ho trovato il coraggio di dirglielo, e allora per la prima volta l’ho vista piangere. Colpa della triptorelina, ovviamente. Tutti quegli ormoni la stavano facendo diventare una fichetta isterica. Però sì, quello che le avevo detto era bello e si è asciugata in fretta le lacrime.
– Grazie a Dio c’è mia zia e ci sei tu, se no mi ritrovavate impiccata in un seminario.
Ogni tanto mi chiedeva come andasse con il mio libro sul tempo. Lo faceva quando si annoiava, era stufa di qualcosa o semplicemente voleva fermarsi.
– Non farmi domande di cui poi non ascolti le risposte!
Era la mia unica, dolce ribellione al suo carattere. Se le avessi risposto, adesso saprebbe che è la produzione di calore a dare l’illusione dello scorrere del tempo. Dove c’è attrito, passaggio di energia e di stato, combustione, trasformazione senza ritorno, ossidazione, ecco in quegli eventi noi percepiamo la trasformazione e quella percezione la chiamiamo tempo.
O almeno, io ho capito così. E se conosciamo abbastanza bene la materia che trattiamo, allora possiamo prevedere come cambieranno le cose. Se do fuoco a un pezzo di carta, questa si brucerà. Se lascio una mela al sole, la mela marcirà. Se lascio la presa, quello che ho in mano cadrà per terra. Se prendo a calci una faccia, le ossa si romperanno, la pelle si spaccherà e uscirà il sangue. E io adesso, nell’attesa in cui tutto si è fermato, mi chiedo se Zara abbia sentito il tempo passare su di sé. Se l’abbia capito profondamente, mentre la picchiavano.
Non che un calcio sulle labbra e un pugno sui reni producano chissà quale calore. Non è come strofinare la testa di un fiammifero contro una superficie ruvida. Però un fiammifero non pensa, né è curioso di vedere in che modo gli ormoni lavoreranno sul suo corpo per renderlo simile, il più vicino possibile, all’idea che ha di sé.
E se un essere umano preso a legnate non brucia, è solo perché chi dà i calci e i pugni a un certo punto si stanca. E scappa. E magari va a ridere da qualche parte perché ha dato una bella lezione a una mignotta.
E pensare che Zara, anche lei, era vergine. Mi ha fatto stare sulle spine per mesi, convinto che il fesso fossi io e poi l’altra sera mi confessa che neanche lei ha mai fatto nulla.
– Tu ti guardi il pisello e sai benissimo cosa farci. Io al momento non saprei se stare sopra, sotto, di lato.
Io ho riso. Lei ha riso. Perché l’aveva chiamato pisello come farebbe una bambina o una madre. Perché non era vero che sapevo benissimo cosa farci. Ci siamo sentiti liquidi, in attesa dei messaggi segreti delle nostre pulsioni. Poi ci siamo salutati e mentre andavo mi toccavo la testa, adesso perfettamente in pari.
Però gli infermieri non si fermano a parlare comunque. Mi guardano come se fosse colpa mia. Non sanno dirmi nulla. Non è il momento. Non possono dirlo a me. Mi sento una di quelle pietruzze che viene scagliata via dal passaggio di una macchina. Senza braccia. Senza occhi. So chi sono. So che non sono più dov’ero prima.
So che non potrò tornarci mai più se non con i ricordi. Ecco, nel libro sul tempo non c’è scritto nulla sui ricordi. Non c’è scritto che a tornare indietro hai l’impressione di viaggiare e quando arrivi, trovi le connessioni tra le persone. Che siano stabili o consumate, sono loro il binario che ti permette di vedere il tempo, che ti permette di starci.
E adesso che aspetto di sapere se si sveglierà o se i pugni e i calci sono stati troppi anche per lei, mi aggrappo al tempo che ho passato con Zara.
Se lascio la presa, mi perdo.
Andrea Meli
Laureato in DAMS indirizzo musica, lavora come docente di sostegno alle scuole medie. Ha frequentato a Lucca i corsi della scuola di scrittura Barnabooth, tenuti da Sebastiano Mondadori. Degli stessi corsi è stato in seguito tutor, dal 2012 al 2018. Ha curato con Sebastiano Mondadori le due antologie Barnabooth Salsicce e rapine (Del Bucchia, 2012) e Morte per acqua (Tra le righe libri, 2014), nelle quali sono presenti tre suoi racconti: Girare e Madmoiselle boyfriend (Salsicce e rapine) e La più grande si chiama Giove (Morte per acqua). Nel 2016 è uscito per la collana GattiVolanti, edizioni Malacopia, il romanzo Anche solo Klop, scritto insieme a Marco Melluso e Diego Schiavo. Dello stesso romanzo è stata pubblicata una seconda edizione nel 2017. È autore, insieme a Licia Ambu, Marco Melluso e Diego Schiavo, del film documentario Il Conte Magico (Genoma Films 2019) per la regia di Marco Melluso e Diego Schiavo.
Con il racconto Zara ha vinto il concorso artistico letterario TRY WALKIN’ IN MY SHOES indetto da CRACK rivista e Arcigay Torino “Ottavio Mai”.