I dispersi del 6 settembre 2014 – Gaza e l’Operazione Margine Protettivo
In copertina: Boris Niehaus (www.1just.de), CC BY-SA 4.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0, attraverso Wikimedia Commons
“Mi dispiace, mamma, che la nave ci abbia affondati e non sono riuscito ad arrivare.
Mi dispiace, mia bella casa, perché non appenderò il cappotto dietro la porta.
Mi dispiace, ricercatori dei dispersi, non conosco il nome del mare in cui sono affondato.
Rassicuratevi, commissioni per il diritto d’asilo, non sarò un peso per voi.
Grazie mare, ci hai ricevuto senza passaporto, grazie al pesce che condividerà la mia carne e non mi chiederà la mia religione e il mio orientamento politico.
Grazie ai telegiornali che riferiranno la nostra morte per cinque minuti ogni ora per due giorni.
Grazie a voi che vi rattristerete quando sentirete la notizia.
Mi dispiace di essere affondato…”
Lettera d’addio di un ragazzo siriano annegato nel mar Mediterraneo il 6 settembre 2014, pubblicata dall’agenzia Anadolu
Il 6 settembre 2014 avveniva una delle innumerevoli tragedie nel mar Mediterraneo, una delle più grandi catastrofi degli ultimi 6 anni, ma che per ragioni geopolitiche venne totalmente oscurata e liquidata. Nella Striscia di Gaza era da poche settimane terminato il massacro israeliano della popolazione civile chiamato “Operazione Margine Protettivo”.
Ogni abitante di Gaza aveva perso almeno un familiare, molte persone erano diventate disabili e/o sviluppato disturbi post traumatici da stress e la maggior parte delle abitazioni, degli ospedali e delle scuole erano stati distrutti. A seguito di tale carneficina e di tale devastazione, molti gazawi, tra cui ragazzi e ragazze molto giovani, minori, donne e anziani, interi nuclei familiari, dovettero attraversare il valico di Rafah per arrivare in Egitto e trovare un modo per raggiungere qualsiasi paese europeo via mare.
Il 6 settembre 2014, 180 gazawi, tra cui 52 bambini e 43 donne, assieme a circa 270 richiedenti asilo siriani, sudanesi ed egiziani, si imbarcarono su una nave mercantile diretta verso le coste italiane con l’intenzione poi di continuare il tragitto verso i paesi del nord Europa per fare domanda d’asilo, o almeno questa era stata la promessa dei trafficanti di esseri umani che avevano organizzato il viaggio.

“Il 5 settembre mia sorella mi ha chiamata per dirmi che il 6 sarebbero tutti partiti illegalmente dal mare di Alessandria d’Egitto verso l’Italia su una nave mercantile. Il piano era di dividerli e metterli su dei barconi per poi, dopo aver superato le acque egiziane, trasferirli tutti su una nave. Per non essere notati dalla polizia egiziana, il gruppo è stato diviso e fatto partire da diverse città: alcuni sarebbero dovuti partire da Damietta, altri da Ismailia e altri ancora da Alessandria. Tutti questi gruppi di persone erano gestiti da un trafficante chimato Abu Hamada al Suri”,
racconta Rasha Hajras, 36 anni, sorella di Roa’a Hajras, una delle vittime della tragedia.
“Secondo i migranti, – continua Rasha- il 6 settembre notte essi sarebbero partiti per un viaggio di 8/9 giorni e il decimo giorno sarebbero dovuti arrivare in Italia. Il giorno 11 settembre, però, un ragazzo di nome Shaker al Assouli ha annunciato sul telegiornale arabo di Al Jazeera, che l’imbarcazione su cui si trovava, è stata colpita e fatta affondare 9 ore prima di toccare le sponde italiane.” La sorella della vittima, però, è restia ancora oggi a credere a questa versione, in quanto presenta varie contraddizioni.
Roa’a Hajras aveva 25 anni, era incinta da sei mesi e aveva una bambina di un anno di nome Yara. Assieme al marito e alla figlia, si imbarcò da Alessandria d’Egitto in quel fatidico giorno. A seguito dell’intervento di al Assouli, la famiglia Hajras pubblicò la foto della piccola Yara su facebook accompagnandola del proprio numero di telefono e con la richiesta esplicita di essere contattati nel caso in cui qualcuno avesse visto la bambina.
Pochi giorni dopo ricevettero una chiamata da un ufficiale egiziano, che riferiva loro di aver visto tutta la famiglia in un carcere militare in Alessandria d’Egitto, in cui vengono detenuti i migranti senza documenti. Inoltre, a confermare il fatto che la barca non lasciò mai le sponde egiziane, fu anche un ragazzo siriano, presunto compagno di viaggio della famiglia, il quale raccontò di una sparatoria da parte di militari egiziani che li fermarono e successivamente li portarono nei vari centri di detenzione.
Da questo momento è iniziato il tormento e la disperazione della famiglia Hajras, ma anche la speranza di poter un giorno riabbracciare Roa’a e Yara.

Sono tantissime le famiglie che chiedono verità per i propri familiari dispersi. Sulla pagina facebook “ مفقوديسفينةالإسكندرية6/9” (“I dispersi del 6/9 della nave di Alessandria d’Egitto”), in cui si condividono aggiornamenti riguardo le vittime di quel tragico evento, ci si imbatte in un video straziante di Hadeel Abed, una ragazza di 27 anni, che piange e urla chiedendo verità per il fratellino e il padre Yasser, ad Al Sisi, alle autorità di Gaza e ad Abu Mazen.
Chiede pietà perché non ne può più di questo dolore straziante e ingiusto. (qui il video https://www.facebook.com/100041974158837/videos/397865084955960/)
Anche lei è sicura che il padre sia ancora vivo e rinchiuso nelle carceri egiziane da quando ha iniziato a circolare sulla pagina facebook, la foto di suo padre su una nave di salvataggio e da quando, su messenger, nel 2017, il padre ha iniziato a visualizzare i messaggi che gli inviava. Raccontando questo fatto sorprendente ai familiari delle altre vittime, si è compreso che quasi tutti i dispersi visualizzavano e leggevano i messaggi. Quando però, questo fatto venne riferito agli ufficiali egiziani, i messaggi non sono più stati visualizzati. Ciò crebbe ancora di più il sospetto generale.



La messa in discussione del naufragio e la speranza che i propri cari siano vivi, si amplificarono quando Tom Rollins, giornalista inglese residente a Il Cairo, noto per aver rilasciato diversi rapporti sull’immigrazione dalle coste egiziane verso l’Europa, pubblicò su twitter delle foto dei centri di detenzione per migranti nel paese nord africano.
Tantissimi parenti e amici delle persone scomparse riconobbero i loro cari nelle foto di Rollins e la convinzione che fossero ancora vivi crebbe sempre più, fino a rimanere un punto interrogativo fino a oggi.
In particolare, il giornalista ha scoperto un centro giovanile chiamato Anfoushy Youth Center ( مركز الشبابي الانفوشي) che è stato trasformato dalle autorità di Alessandria in un centro di detenzione per persone che tentano illegalmente di raggiungere l’Europa ed è , proprio nelle foto ai migranti rinchiusi in questo centro, che sono state riconosciute alcune delle persone disperse. Il rapporto di Rollins su Anfoushy , rivela che nell’ottobre del 2014 vi erano rinchiuse circa 130 persone, di cui erano costantemente violati i diritti umani e a cui era impedita l’assistenza di avvocati durante tutto il periodo di detenzione.

I sospetti delle persone convinte che la propria sofferenza sia causata dal governo egiziano non sono per nulla infondati, anzi. Molti palestinesi, soprattutto di Gaza, vengono spesso rinchiusi nei centri di detenzione dove vengono sottoposti a torture fisiche e psicologiche e viene negata loro la possibilità di lavorare e costruirsi un futuro in Egitto, specialmente chi attraversa il valico di Rafah senza permesso. Diverse volte i soldati di frontiera egiziani hanno sparato ai rifugiati palestinesi che tentavano di lasciare le coste del paese. Sempre nell’anno 2014, un gruppo di palestinesi fu colpito con spari in una spiaggia vicino ad Alessandria mentre tentava di salire su una barca e un ragazzo morì.

La versione ufficiale della tragedia, pubblicata sul sito dell’OIM a seguito del fatto, racconta che i 450 migranti furono uccisi di proposito colpendo la nave e facendola affondare dai trafficanti di merce umana, a seguito di una disputa dovuta al rifiuto delle vittime a trasferirsi su dei barconi più piccoli e quindi più pericolosi.
La maggior parte delle persone caddero in mare e affogarono, ha riferito l’Organizzazione, altre sono riuscite a restare a galla aggrappandosi a mezzi di fortuna, tra cui i due giovani palestinesi sopravvissuti e portati in salvo in Italia. Tuttavia, i parenti delle vittime continuano a ricevere segnali sulla loro ipotetica detenzione in Egitto e continuano a pretendere chiarezza e verità sull’accaduto.
“Noi accettiamo il destino ma vogliamo sapere la verità. Se sono morti, detenuti, rapiti da organizzazioni criminali… vogliamo saperlo, il dubbio e le supposizioni ci stanno uccidendo dentro” (rappresentante del movimento “ dispersi della nave di Alessandria 6/9”,padre 60 enne di Fahd al Asfour, giovane ragazzo scomparso)
Rasha Hajrus
Many thanks to Ms Dalia Ismael
Roba hajrus
Release the prisoners of the 6/9