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La città che mette a disagio le donne

«Any settlement is an inscription in space of the social relations in the society that built it. […]  Our cities are patriarchy written in stone, brick, glass and concrete»1).

Da qualche tempo sto conducendo con Azzurra Muzzonigro una ricerca sulle disparità di genere nella città, un’impresa solo apparentemente astratta che prova a osservare il pensiero che ha dato origine agli spazi urbani, i bisogni ipotetici che ne hanno guidato lo sviluppo e l’idea di utente intorno a cui sono stati progettati. Per scoprire – ça va sans dire – che viviamo in città costruite intorno a modelli urbani patriarcali e novecenteschi, dove gli uomini vanno al lavoro e le donne rimangono a casa ad allevare i figli, a preparare la cena, e a occuparsi di tutto ciò che sta al contorno di questi aspetti cosiddetti “di cura”.

Ebbene, quando mi è capitato di parlare di questa ricerca con persone poco gender-oriented, maschi o femmine indistintamente, ho notato che spesso l’argomento era accolto con stupore misto a fastidio: ma in che senso la città esprimerebbe una disparità di genere?, come se si trattasse di una stortura ideologica senza fondamento, di un’ennesima sovra-interpretazione femminista.

Arrivate a questo punto, la ricerca – che abbiamo scelto di intitolareSex & the City – è in fase avanzata, e dunque ho ritenuto fosse arrivato il momento di scrivere la risposta che vorrei aver fornito a queste persone in quelle occasioni. Ciò che qui argomenterò per punti sintetici è sostenuto da diverse ricerche statistiche recenti, condotte in diverse città del mondo, a mostrare che dalle ideologie abbiamo cercato di tenerci sufficientemente distanti.

Paura

Lo spazio pubblico è il luogo in cui maggiormente le donne si sentono insicure. Un enorme paradosso, certamente, se si considera che la maggior parte delle violenze di genere (più dell’80%) avvengono tra le mura di casa. Tuttavia, il dato legato alla percezione è un’informazione non meno importante del dato di realtà.

Perché le donne hanno paura quando sono fuori casa? Quando usano la città, le donne sanno di dover stare costantemente in guardia nei confronti dell’appropriazione maschile, appropriazione che si esprime in moltissimi modi diversi: attraverso i fischi, gli ammiccamenti, gli sguardi ammiratori (che per quanto possano fare l’effetto di un complimento sono comunque forme di possesso surrogato), ma anche nella presenza del tizio in macchina alla ricerca di una prostituta, nell’ubriacone molesto, nel maniaco sessuale, nello stupratore. Si tratta di pratiche prettamente maschili che popolano i nostri spazi urbani e con cui la maggior parte delle ragazze, delle donne, si è dovuta confrontare una o più volte nella vita.

Una ricerca recente condotta nella città di New York racconta che il 75% delle donne ha avuto esperienza di molestie o scippi sui mezzi pubblici, contro il 47% degli uomini; Istat invece raccoglie un dato per certi versi ancor più inquietante: in Italia il 36,6% delle donne (più di 11 milioni di donne!) non esce di sera per paura (a fronte dell’8,5% degli uomini), e il 35,3% quando esce da sola di sera non si sente sicura (contro il 19,3% degli uomini).

Le città, soprattutto di notte, sono per lo più buie e spesso mal pensate: in alcuni quartieri dove nemmeno un servizio si offre come presidio, camminare da sole per molte donne è fonte di angoscia e, a volte, si trovano a dover scegliere percorsi più lunghi per evitare determinate strade o piazze considerate pericolose. La città è percepita come un luogo insicuro perché fuori dalle mura domestiche le situazioni che si presenteranno sono ignote: ciò che non conosciamo, che non possiamo controllare, ci fa paura, crea disagio, e la società patriarcale ha lavorato a lungo per coltivare questo timore, principalmente ancorato alla dominanza fisica maschile, alla violenza nelle sue molteplici forme e alla libertà di azione sui corpi delle donne.

I media non contribuiscono inoltre a migliorare la percezione della città da parte delle donne: i casi di stupro perpetrati da sconosciuti vengono argomentati e commentati con ben più partecipazione e interesse di quanto non siano discussi nei telegiornali i numerosi femminicidi che avvengono in casa, per mano di mariti, ex compagni, o familiari generici. Questo crea un timore ancora più radicato, oltre che nelle donne stesse, nei genitori delle ragazze, i quali, spesso ancor più che le stesse figlie, vivono con forte ansia – e a volte con impedimenti concreti – le loro uscite.

«Le donne sanno che lo spazio della città non appartiene davvero a loro. Sanno che la maggior parte delle città è pericolosa, che loro possono usare solo alcune parti della città e in specifici momenti, e che anche in quegli spazi dove è permesso loro di andare devono comportarsi in modo particolare»2. Perché poi se ti succede qualcosa, la prima cosa che la gente si domanda è “ma che cosa ci faceva lì a quell’ora da sola?”, come se una donna, in fondo, non dovesse fare altro che stare a casa o, al più, uscire accompagnata (da un uomo).

Organizzazione quotidiana

La vita delle donne è provato essere ben più complessa, nella sua articolazione quotidiana, di quella degli uomini. Le donne, ancora in buona parte sovraccariche del lavoro di cura, organizzano le proprie giornate non solo in base al luogo di lavoro in cui devono recarsi, ma anche intorno ai bisogni propri e delle persone di cui sono chiamate ad occuparsi: figli, genitori anziani, mariti. Il lavoro non retribuito, che ancora oggi è svolto principalmente dalle donne, implica spostamenti di diversa natura rispetto alle previsioni di utilizzo dei mezzi pubblici, che vedono come utente medio un uomo che esce di casa alle 8.30 e si reca al lavoro, solitamente in zona più centrale rispetto al luogo di residenza, per poi tornare a casa intorno alle 18.

Le linee di trasporto sono infatti pensate su questo modello, in senso “penetrativo” delle città a replicare una prassi pendolare, e intensificate durante le ore di punta. Tuttavia le donne usano la città in maniere ben più articolate: una giornata media di una donna media può prevedere che esca di casa alle 7.30 e porti i figli all’asilo o a scuola, per poi andare al lavoro, dove ormai oggi – per fortuna – si trova in una condizione lavorativa full time nella maggior parte dei casi; se i figli sono ancora a scuola quando finisce il turno di lavoro, va a prenderli, oppure va a recuperarli dove qualcun altro si è occupato di portarli (altri genitori di bambini, nonni, babysitter); a questo punto va a fare un po’ di spesa; c’è inoltre bisogno di passare in farmacia e di recuperare gli abiti lasciati in lavanderia. A quel punto può tornare a casa, con le borse della spesa, i bambini e la stanchezza di una giornata di lavoro addosso.

Questo tipo di organizzazione della giornata implica l’utilizzo di molteplici linee di mezzi pubblici, spesso per brevi tratti, e a volte con i bambini. Le donne, peraltro, usano meno l’automobile di quanto lo facciano gli uomini, e sono infatti le principali utenti dei mezzi pubblici delle città. La rete di trasporti però connette bene alcuni punti nevralgici delle periferie al centro, ma lascia scoperti i collegamenti tra periferia e periferia. All’interno di un’idea di città divisa per funzioni (pratica anche chiamata zonizzazione), dove le residenze spesso sono collocate in quartieri dormitorio, anche andare in lavanderia può diventare un problema.

Da questo punto di vista, le donne conducono una vita quotidiana scomoda e faticosa, sulla quale si trovano spesso a pagare anche il prezzo di una cosiddettapink tax: i mezzi pubblici usati in questa maniera non sono sempre e ovunque allo stesso prezzo di un uso pendolare, inoltre in molti luoghi anche i bambini sono tenuti a pagare il biglietto.

Barriere architettoniche

Come principali caregivers (si perdoni l’inglese, ma in italiano non esiste una parola corrispondente così precisa), le donne si trovano ben più spesso degli uomini a doversi confrontare con i risultati di progetti architettonici poco congeniali a coloro che non sono pienamente abili e agili.

L’uso di carrozzine, passeggini, girelli in città è un vero e proprio dramma che si comprende solo nel momento in cui se ne fa esperienza in prima persona. Per fare un esempio, a Londra solo 50 delle totali 270 stazioni della metropolitana sono munite di ascensori; tutte le stazioni che ne sono sprovviste (o il cui ascensore non funziona) diventano immediatamente inaccessibili per chi viaggia su una sedia a rotelle, così come per chi si occupa di queste persone (come lavoro retribuito o non). La gestione dei passeggini è invece per lo più affidata ai passanti casuali, che gentilmente aiutano le donne a sollevarli e trasportarli lungo le rampe delle scale fino ai binari delle metropolitane.

E poi i marciapiedi, spesso troppo stretti, dissestati, senza le rampe di discesa; o gli accessi a edifici pubblici o privati, con scale all’ingresso o ascensori al mezzo piano, quando presenti; ma anche le porte girevoli, i tornelli alla metropolitana, lo spazio destinato a carrozzine e passeggini sugli autobus, sempre troppo esiguo: la città è una fonte infinita di difficoltà per chi ha una disabilità motoria di qualunque genere e, conseguentemente, per chi si occupa di queste persone, per lo più – ripetiamolo – donne.

Deviando poi solo parzialmente dal titolo di questo paragrafo, se le città fossero state pensate da donne, o anche da uomini con un immaginario più esteso, probabilmente vedremmo la presenza di panchine nelle banchine d’attesa di treni, bus e metropolitane, ma anche e soprattutto nelle piazze, nei giardini, nei parchi, a raccontare che la città non può e non deve essere solo un luogo di transito per lavoratori o consumatori, ma anche uno spazio effettivamente pubblico, dove poter trascorrere il tempo libero, dove riposarsi, leggere un libro o mangiare un gelato.

Servizi igienici

Quando dicono a noi donne che dovremmo usare la coppetta vaginale perché si risparmia, non inquina, perché è in generale più sostenibile, mi chiedo ogni volta come gestiscano questa scelta coloro che effettivamente la usano; come facciano a mettere e togliere quell’oggetto pieno di sangue nella e dalla cavità vaginale quando non sono in casa.

Il mondo fuori casa, lo spazio pubblico, non prevede la presenza di bagni pubblici, e nei rari casi in cui qualche amministrazione ha pensato di offrire questo servizio, spesso poi risulta che si è dimenticata di affidarne le pulizie – nella migliore delle ipotesi – o la sua riparazione.

Questa mancanza non crea un problema solo per le donne che vogliono usare la coppetta vaginale, ovviamente; alcune ricerche mostrano infatti che le ragazze adolescenti, per esempio, smettono presto di usare i parchi pubblici, non solo perché il dominio di tali luoghi tende ad essere di pertinenza maschile, ma anche perché sono spazi privi della possibilità di cambiarsi o di lavarsi, tutti aspetti ben più legati alla sfera femminile che a quella maschile; e naturalmente molto spesso strettamente connessi al fatto che le ragazze hanno il ciclo mestruale e i ragazzi no, i quali anzi, volendo, possono pure urinare in piedi dietro a un albero se proprio il bagno non c’è. Come sostiene Joni Seager, «l’assenza o l’inadeguata fornitura di bagni pubblici per le donne riflette e rafforza la loro esclusione dal potere pubblico e dagli spazi in generale: è difficile partecipare appieno alla società civile se non sai dove andare in bagno»2).

«I progetti di rigenerazione dell’ultimo decennio riguardano più le fioriere e i bar che l’accesso all’acqua potabile gratuita, ai servizi igienici pubblici, agli alimentari economici e agli uffici postali. Sembrano risolvere solo i problemi del primo mondo dei monoculturali illuminati che li hanno creati», dice Christine Murray, chiedendosi come sarebbero le città se fossero state disegnate da donne, o meglio, da mamme.

Va da sé che l’effetto di queste dinamiche differisce a seconda dei soggetti: non tutte le donne subiscono discriminazioni alla stessa maniera, non tutte le donne realizzano la presenza di un problema (anche per abitudine a non leggere lo stato delle cose con un’ottica di genere; a volte siamo talmente abituate a vivere deprivate di ciò che non è mai stato previsto per noi che non riusciamo nemmeno a porci il problema). È logico inoltre che questi aspetti siano ben più sentiti da donne non bianche, non benestanti, non etero, non cisgender; le minoranze sono in ogni caso maggiormente impattate dalle discriminazioni. Ed è altresì scontato che se si trovassero soluzioni a questi problemi, ne sarebbero comunque beneficiarie tutte.

Quindi sì, una questione di genere nell’uso della città esiste. E forse è tempo di occuparsene.

LEGGI ANCHE: La Necessità di un Urbanistica Femminile

Note

Note
1 Jane Darke, “The Man-shaped City”, in Changing Places. Women’s Lives in the City, edited by Id., Chris Booth and Susan Yeandle, Paul Chapman Publishing Ltd, London 1996, p.88.
2 Joni Seager, L’atlante delle donne, AddEditore, 2020, p. 116

Comments (1)

  • Susanna

    Articolo molto interessante e ricco di spunti. Mi sono ritrovata in molti punti. La coppetta mestruale per fortuna non deve essere cambiata così spesso (di solito, poi dipende da donna a donna) ma la presenza o meno di bagni pubblici o esercizi con il bagno ha spesso determinato scelte diverse di organizzazione per uscire. Noi dobbiamo pensare ad ogni evenienza. Saluti

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