
Non esiste lotta LGBTQ+ senza lotta all’abilismo
Credits immagine in copertina: Illustrazione di Elia Nadie, 2020.
Questo 2020 ha portato una cosa buona: il termine “Abilismo” è entrato nel dizionario Treccani. Anche se è indicato come neologismo, l’abilismo esiste e circola già da tempo come versione italiana dell’inglese “ableism”.
Sempre nel 2020, in extremis, nella legge Zan, alle misure di prevenzione e contrasto delle discriminazioni e violenze legate a genere e orientamento sessuale è stata aggiunta anche la disabilità. Ovviamente, nè la legge Zan nè la Treccani sono in sè parametri attraverso cui giudicare dove stiamo andando dal punto di vista sociale: sono però passaggi che forse indicano che qualcosa sta cambiando. L’abilismo è ora perlomeno nominato: e l’avere un nome è un primo passo importante per creare rivoluzioni.
Forse oggi non c’è più tanto bisogno, almeno in alcuni ambienti, di spiegare che cosa sia l’omotransfobia e perché sia, in tutti i suoi derivati, intrinsecamente negativa, nonostante proprio durante la discussione della legge Zan i partiti di destra abbiano invocato il principio di libertà di opinione. L’abilismo, invece, è ancora in gran parte uno sconosciuto.
Nell’accezione generale, si riduce al “trattare male i disabili”: una concezione dell’abilismo che è un massimo esempio di abilismo stesso impastato con pietismo e semplificazione, un mix che crea danni.
Nota per chi legge: l’abilismo non si riduce al “trattare male i disabili”.
L’abilismo racchiude tutte le forme di violenza, indiretta e diretta, e di discriminazione nei confronti delle persone con disabilità. Per esempio, le barriere architettoniche che impediscono alle persone con disabilità di circolare liberamente negli spazi pubblici e privati sono un’espressione dell’abilismo. Usare le parole “down” o “autistico” come insulto o come scherzo è espressione di abilismo.
Celebrare come eroine ed eroi persone che fanno grandi cose nello sport, nell’arte, nella politica “nonostante la loro disabilità” è una forma di abilismo che ha un suo nome specifico, “inspiration porn” – l’industria cinematografica è una grande amante di storie di questo tipo.
Usare lo spettro della disabilità come ammonimento per allacciarci le cinture in macchina è un esempio di abilismo alla massima potenza, perché mostra la disabilità come la peggior cosa che può succedere ad un essere umano (anche questo ha un suo nome, “cautionary tale”).
Pensare che la disabilità si limiti ad una sedia a rotelle o eventualmente ad un autismo simpatico e un po’ geniale stile Rainman: anche questo è abilista, perché non tiene conto dell’immensa diversità di condizioni, visibili e invisibili, che possono rientrare nella categoria “disabilità”.
L’abilismo ci induce ad essere cert* che, se c’è una persona disabile in una stanza, la si riconosce subito. Inoltre, ci infonde l’idea che esistano dei corpi normali, o meglio, una normalità corporale e mentale, accettabile, riconoscibile, e per questo rassicurante: e che poi esistano delle deviazioni dalla norma, dis-funzionali, dis-allineate e per questo pericolose (da questo stessa matrice nasce anche la grassofobia, tra l’altro).

Se ci fermiamo a pensare, l’abilità è il privilegio più labile e temporaneo di tutti i privilegi (che, in quanto tali, sono tutti comunque labili e temporanei). È una condizione che può cambiare un nanosecondo, con un incidente o una malattia; oppure può mutare nel corso di una vita, come accade con l’invecchiamento. Ma siamo tutt*, nessun* esclus*, espost* costantemente al rischio di perdere il privilegio dell’abilità.
Forse è anche per questo che è così ostinato, così duro a morire: perché ci permette, collettivamente, di creare un grande oblio continuo, come quando fingiamo di non sapere se domani torneremo ad aprire gli occhi su questo mondo (fingiamo benissimo, talmente tanto e da tanto tempo, che finiamo per dimenticarcene).
Se l’abilismo è un semi-sconosciuto, ancora di più lo è il suo legame intimo con l’omotransfobia. Con le lotte intersezionali, che nascono da lontano, si è mostrato come non sia possibile combattere omofobia e sessismo senza risalire i meandri del razzismo. Negli Stati Uniti o in Brasile, ad esempio, questo legame intrinseco è diventato quasi mainstream; in Italia si fatica ancora a riconoscere l’antirazzismo come parte intrinseca della lotta LGBTQ+ (per non parlare della difficoltà di dirsi senza vergogna antifascist*).
Ci sono degli elementi storici e culturali che mostrano come l’intersezione tra abilismo e omotransfobia sia intrinseca e profonda. In primo luogo: storicamente sia il concetto di abilità che quello di eterosessualità e, più recentemente, di cisgenderismo, nascono come riferimento ad una presunzione di normalità. In altre parole, la disabilità, di per sè, non esiste, se non come “assenza o disfunzione dell’abilità”.
L’abilità, poi, si definisce come la capacità di essere produttivi.
A osservare questo legame, che oggi definiremmo un legame fatale tra soggetti normati e soggetti produttivi, è un insospettabile della teoria della disabilità: Karl Marx. Senza saperlo, è lui a delineare una prima relazione tra abilità e produttività. Seguendo il filo di questo ragionamento, la disabilità si definisce quasi esclusivamente come deviazione dalla normalità, per differenza. Anche l’omosessualità, la transessualità e tutto ciò che ricade dentro la categoria LGBTQ+ sono definibili come deviazioni dalla sovrapposizione di eterosessualità, cisgenderismo, monogamia che costruisce “l’uomo e la donna normali”.

Tanto le persone LGBTQ+ che le persone disabili, poi, sono oggetto, da decenni, di patologizzazione e medicalizzazione: sono cioè considerate in condizioni che si possono “sistemare”, che si possono curare.
Piuttosto che investire per abbattere le barriere culturali, economiche e fisiche che “disabilizzano” le persone con corpi e menti differenti, si è preferito insistere sulla loro disabilità e sulla loro necessità di cura e accompagnamento. Piuttosto che rifondare l’idea di famiglia, di identità, di relazioni verso la varietà dell’esperienza umana, si sono sfoderate ideologie ed eserciti di ricerche per rendere le persone LGBTQ+ sempre anormali.
Non sono mancate le terapie riparative dell’omosessualità, oggi ancora diffuse in Italia ma vietate per legge in molti altri paesi. Né sono mancate le idee secondo cui la disabilità è una tragedia personale, una sfortuna individuale, una di quelle situazione per cui ad alcune persone va male nella lotteria della vita. L’individualizzazione è stata storicamente un’arma molto potente per non assumersi responsabilità collettive, per non riconoscere che , in fondo, la normalità non è che “un’inevitabile commedia”, come dice Judith Butler.
L’omotransfobia ripete allo sfinimento, performativamente, che la normalità è una sola e che tutte le altre forme di fare genere e sessualità sono meno valide; ugualmente, l’abilismo ribadisce senza sosta che la normalità corporale è una sola e che tutte le altre forme di corpo e mente sono meno valide. Lottando per smantellarne una, non possiamo ignorare l’altra. Lasciando che l’una prenda piede, lasciamo che anche l’altra si espanda.
Ma poi, in fondo, c’è un elemento ancora più diretto, quasi banale, che tesse insieme abilismo e omotransfobia.
Siccome, come diceva Audre Lorde, non viviamo vite separate, ci sono tante persone che si identificano come LGBTQ+ e hanno una disabilità, una malattia cronica, una neurodiversità o una condizione per la quale vivono, sul proprio corpo, le conseguenze dell’abilismo e dell’omotransfobia, in ogni istante e in ogni contesto. Io sono una di loro e posso assicurare che non solo siamo in tant* ma che separare le forme di oppressione quando il corpo che abbiamo è uno solo non è umanamente possibile.
Trattare la lotta LGBTQ+ come intrinsecamente antiabilista non significa quindi aggiungere un’altra stelletta al petto dell’attivismo, l’intersezionalità non è una questione di addizioni: come se le cose agissero separate, come se alle cinque, con i miei genitori, vivessi l’omofobia ma alle nove, al cinema, fosse solo abilismo (mentre il razzismo rimanesse sempre un problema di chi non è bianco, a tutte le ore).
I sistemi di oppressione lavorano sempre insieme. Si rafforzano insieme. Magari non è sempre visibile, magari non agiscono sempre con le stesse dinamiche e non sono sempre riconoscibili, ma contribuiscono sempre alla crescita gli uni degli altri. Pensiamo a quanto più minacciosa diventa la grassofobia quando è agita su una donna, magari lesbica, magari non bianca. O a quanto insostenibile diventa la transfobia quando a farne le spese è una persona trans, magari con disabilità. I sistemi di oppressione sono campi minati che si alimentano gli uni gli altri.
Negli ultimi decenni, almeno dai moti di Stonewall, la lotta delle persone trans, gay e lesbiche, prima, poi via via dei movimenti LGBTQ+, è stata una lotta per rendersi visibili. L’espressione che si usa in inglese per dirlo è “coming out of the closet”, uscire dall’armadio, e ha a che vedere con l’idea di uscire da un luogo nascosto per occupare le strade, per essere visibili: uscire dall’armadio per vedere e farsi vedere, per non fingere più insieme a tutte le altre persone che la normalità sia davvero solo la monogamia, l’eterosessualità, il cisgenderismo.
Le lotte antirazziste, antiomofobe, antiabiliste sono tutte lotte dolorose e anche difficili, proprio perché portano alla luce ciò che è nascosto alla superficie e costringono a guardare i proprio privilegi in faccia, senza usare quella tattica fallimentare, ma evidentente molto comune, del nascondersi dietro un dito.
Quindi: non possiamo più far finta di nulla, non possiamo più fingere che le lotte LGBTQ+ non abbiano nulla a che fare con quelle antiabiliste. Ma, più di tutto, non possiamo più ignorare che l’omotransfobia si nutre anche di abilismo e che l’abilismo prolifera proprio dove nessuno lo riconosce: non siamo uscit* dall’armadio per finire a nasconderci dietro un dito.