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MEDITERRANEA – Un’altra frontiera: la Rotta Atlantica

Foto in copertina di Mediterranea Saving Humans

Nel 2020 più di 20.000 persone hanno attraversato l’Oceano Atlantico e sono arrivate alle Canarie. La politica messa in atto dal governo spagnolo per far fronte a quest’emergenza umanitaria è simile a quella del premier greco Kyriakos Mītsotakīs: chiudere, contenere, far in modo che nessuno riesca a raggiungere la penisola. Le Canarie sono diventate un’isola di detenzione, una prigione a cielo aperto. Un’altra Lampedusa, l’ennesima Lesbos.

La rotta che lega l’Africa occidentale all’arcipelago spagnolo viene percorsa da tempo. L’ultima crisi risale al 2006. In spagnolo la chiamano “La crisis de los cayucos”: 36.000 persone raggiunsero le Canarie a bordo di canoe e piccole barche. Da quel momento in poi, però, gli sbarchi sono diminuiti, nel 2019 se ne contano 2557.

«Le cause che hanno portato a una crescita esponenziale degli arrivi nel corso dell’ultimo anno sono simili a quelle del 2006», puntualizza Sara Prestianni, responsabile migrazione e asilo del network “EuroMed Rights”. Diversi fattori hanno spinto così tante persone nel corso del 2020 a percorrere il tratto di mare che separa il Marocco dalle Canarie. Innanzitutto, le politiche di respingimento attuate dal governo marocchino: «Nel 2013 era stata approvata una nuova legge che regolamentava le politiche d’asilo. Per ingraziarsi l’Unione europea il governo aveva iniziato a utilizzare un vocabolario più aperto nei confronti dei rifugiati e dei richiedenti asilo, ma era semplicemente una finzione: nella realtà dei fatti, in quegli anni è iniziata una dura repressione del fenomeno migratorio», spiega Maite Daniela Lo Coco dell’associazione “Iridia” che si occupa di diritti umani a Barcellona.

Chi dal Marocco voleva raggiungere la Spagna prima passava soprattutto dal Nord del Paese. Tre le strade principali: due per mare, una attraverso lo Stretto di Gibilterra partendo dalle coste marocchine e l’altra dall’Algeria attraverso il Mare di Alboran; la terza, via terra, arrivando alle città spagnole di Ceuta e Melilla, separate dal Marocco da due barriere di filo spinato per cui l’Unione europea ha speso 30 milioni di euro. Per bloccare l’esodo, il governo marocchino ha incominciato a rafforzare il controllo delle frontiere (terrestri e marittime) e a detenere arbitrariamente chi tentava di attraversare il confine. Richiedenti asilo, bambini, donne. «Per inasprire i controlli è stato utilizzato il “Fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per l’Africa”», aggiunge Sara. Nel 2019 il Marocco ha ricevuto da Bruxelles quasi 102 milioni.

Dopo averli identificati e trattenuti, le autorità marocchine li rimpatriano forzatamente nel loro paese d’origine o li spediscono verso il Sud del Paese. «Hanno costruito anche un centro di detenzione a Nador», spiega Maite. Nador dista un centinaio di chilometri dal confine con l’Algeria. La violenza delle forze dell’ordine è diventata sistematica. Sono tantissime le associazioni che nel corso degli anni hanno raccolto le testimonianze delle persone respinte. In uno dei suoi ultimi rapporti l’associazione “Gadem” parla di 6500 arresti tra luglio e settembre 2018. Un ragazzo del Camerun intervistato dai volontari racconta di essere stato deportato senza nessuna motivazione: «Il 12 settembre sono uscito per andare a lavoro, la polizia era fuori dalla mia porta di casa […] Mi hanno strappato il passaporto davanti agli occhi. Non mi hanno lasciato neanche il tempo di mettermi le scarpe».

Sono stati gli spostamenti forzati e i controlli alle frontiere a spingere sempre più persone ad affrontare la rotta atlantica. Sia quelli del governo marocchino, sia quelli della cosiddetta guardia costiera libica. Anche i continui respingimenti nel Mar Mediterraneo centrale hanno contribuito alla riapertura della rotta delle Canarie. Spiega Sara: «Chi fugge dal Senegal e dal Mali sa che se affronterà il Mar Mediterraneo centrale, verrà quasi sicuramente respinto e per questo motivo decide di attraversare il mar Atlantico». Flussi migratori che si influenzano a vicenda. A questi fattori, poi, si è aggiunta l’emergenza sanitaria. «Con la diffusione del coronavirus, le frontiere terrestri sono state completamente chiuse. Questo ha spinto moltissime persone verso il Sud», dice Maite. Ora si parte dal porto di Daklha nel Sahara occidentale, una regione contesa sia dal Marocco sia dal Fronte Polisario, un’organizzazione militare del popolo locale dei Sahrawi.

La rotta atlantica è tra le più pericolose. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni parla di 500 morti nell’ultimo anno. Ma si presume, visti gli arrivi, che il numero sia fortemente sottostimato. L’associazione “Caminando Fronteras” ha contato 1851 vittime tra il 2020 e il 2021. La maggior parte dei naufragi avviene vicino alle coste africane: “Caminando Fronteras” ne ha segnalati 45. Secondo Sara, se non ci fosse “Salvamento Maritimo” – la guardia costiera spagnola – si conterebbero molti più morti: «Le organizzazioni sindacali di “Salvamento Maritimo” hanno lottato per chiedere più navi e attrezzature. Il diritto dei lavoratori in questo caso è coinciso con il diritto dei migranti. A differenza di quanto accade nel mar Mediterraneo centrale lo Stato è presente nel tratto di mare che gli spetta». Anche per questo motivo c’è meno bisogno di organizzazioni umanitarie che si occupino dei salvataggi.

Sulle isole, invece, la presenza della società civile è fondamentale sia per denunciare gli abusi sia per garantire a chi raggiunge la terraferma un’assistenza adeguata. Le Canarie non erano pronte ad affrontare un’emergenza di questo tipo. I centri di accoglienza non erano abbastanza grandi e sufficientemente attrezzati. Si sono riempiti praticamente subito. Per liberare il campo del porto di Arguineguín, nel comune di Mogán, il governo ha aperto a dicembre 2020 un centro per l’identificazione a Barranco Seco. Da qui, teoricamente dopo 72 ore, i migranti dovrebbero essere spostati nelle diverse strutture di accoglienza. Il ministro dell’Interno, Fernando Grande-Marlaska, ha predisposto nel cosiddetto “Plan Canarias” la costruzione di centri da 1000-1200 posti ognuno per arrivare a un totale sulle tre isole di 7000 posti. «Il modello è quello del Cara di Mineo», aggiunge Sara. Grandi centri dove le persone dormono e vivono in condizioni pietose. «Quando sono andata a dicembre alle Canarie, li stavano costruendo. Sono praticamente dei campi militari con delle tende», racconta Sara.

Come avviene oramai da anni nelle isole greche, da questi luoghi non puoi uscire se non per essere rimpatriato nel tuo paese d’origine. Con la pandemia la detenzione è diventata ancora più flessibile. «Ti trattengono per tantissimo tempo, senza nessuna ragione e intanto si accordano per rispedirti indietro», denuncia Maite. La strategia concordata dal governo spagnolo è la stessa richiesta da Bruxelles: una strategia di contenimento che riduca i flussi migratori da un paese europeo all’altro e che punti sui rimpatri nei paesi d’origine. Secondo Sara, alle Canarie si sta verificando una sperimentazione del “Patto europeo per la migrazione” che la Commissione ha presentato il 23 settembre del 2020: le isole diventano frontiere con grandi strutture di screening e identificazione. Ma per Maite è proprio questa strategia ad aver creato una situazione emergenziale: «Rispetto al 2018 in tutta la Spagna gli arrivi sono diminuiti: due anni fa sono stati 50.000, nel 2020 invece ne sono stati segnalati 40.000. Questo vuol dire che il problema reale non è stato l’afflusso di persone, ma il sistema con cui è stato gestito».

Con il crescere degli sbarchi il governo delle Canarie ha stretto accordi («informali, perché nessuno li ha potuti visionare», specifica Sara) con la Mauritania per rimpatriare le persone transitate da lì e poi arrivate in Spagna, e con il Marocco per i marocchini che sono riusciti a raggiungere le Canarie. «Sono rispediti indietro 80 marocchini alla settimana. Non sappiamo chi sono, se vengono tutelati i loro diritti. È una cosa scandalosa», ripete Maite. Conoscere il numero dei rimpatri avvenuti finora è impossibile. L’ambiguità regna sovrana. L’Unione europea, ancora una volta, rimane in silenzio a guardare: aspettando che tutto ciò accada in un’altra isola, in un altro stato. È solo questione di tempo.

Questo articolo riassume i temi trattati in una conferenza organizzata da Mediterranea Saving Humans, dal titolo “Bordering Europe. La Rotta Atlantica, una frontiera d’Europa”. Se volete recuperare l’incontro per intero, potete farlo qui (https://www.facebook.com/events/234492168316996)

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