TOP

Intersezionale

«Mi sveglio e grido». I segreti delle prigioni talebane.

Immagine in copertina di: khaama.com

Fayzabad è una cittadina situata a nord est dell’Afghanistan. La sua terra, secca e desertica, si rende complice di barbarie e violazioni alla dignità umana, macchiandosi del sangue di innocenti che soffrono la follia dei ribelli. I sopravvissuti agli orrori, svuotati negli animi di ogni parvenza di umanità, parlano della loro detenzione e dei segni indelebili che portano non solo sulla pelle.

Testimonianze crude a disposizione del mondo per conoscere ciò che è stato, ciò che è.

La prigione talebana è una casa in rovina, una grotta, uno scantinato buio e sporco, la moschea di un villaggio.

Le percosse, una certezza.

La pena, indefinita, per reati altrettanto dubbi.

Il cibo, se c’è, è pane raffermo e fagioli freddi. Il pavimento o un tappeto sporco diventano un letto. La minaccia di morte – urlata, masticata a denti stretti, molte volte inflitta – diventa un incubo perpetuo, un fumo nero che annebbia il cervello.

Malik Mohammadi, un contadino sessantenne, ha visto i talebani mettere a morte suo figlio Nasrullah, 32 anni, ufficiale dell’esercito, in una di queste prigioni. Per nove giorni, Nasrullah, epilettico, si è visto rifiutare le medicine dai suoi aguzzini. Gli è stato negato il cibo. Suo padre ha visto il sangue uscire dalla sua bocca e i lividi delle percosse. È morto il decimo giorno. «Ho assistito alla morte di mio figlio» dice Mohammadi con lo sguardo perso nel vuoto, il volto senza alcuna espressione. Senza più alcun sentimento.

Julian-G. Albert, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0, via Wikimedia Commons

I detenuti sono rinchiusi in prigioni improvvisate e nascoste, oppure spostati da un giorno all’altro da una casa in rovina ad una moschea isolata più avanti e, di nuovo, senza alcuna idea di quanto durerà quel nauseante viaggio privo di dignità.

«Il ricordo continua a tormentarmi nel sonno» dice Sayed Hiatullah, negoziante di Fayzabad. L’anno scorso Sayed è stato falsamente accusato da un posto di blocco talebano di lavorare segretamente per lo Stato. È stato imprigionato per 25 giorni.

«Mi sveglio e urlo. È stato il periodo più buio e degradante della mia vita. Sono stato sotto shock per sei mesi» confessa Hiatullah con le lacrime che gli rigano il viso.

«Ho ricordi più che vividi. Rivivo le atrocità ogni minuto, ogni secondo» afferma Atiqullah Hassanzada, 31 anni, ex soldato catturato l’anno scorso mentre si recava in un ospedale di Kabul, parlando dal pavimento della sua casa. «Sono stato picchiato sulla schiena», ha detto.

A Fayzabad, la tecnica dei talebani è quella di incarcerare e punire prima e fare domande dopo; non c’è nessun giudice e nessun tribunale. Gli abitanti dei villaggi locali sono costretti a fornire il cibo. Non ci sono statistiche precise, ma sono migliaia gli afghani detenuti in questo modo.

«I talebani hanno fermato il veicolo e mi hanno arrestato», ha detto Naqibullah Momand, in viaggio verso la sua casa nella provincia di Kunduz l’anno scorso. «Mi hanno messo la mano sul cuore per controllare il mio battito cardiaco», ha detto il 26enne. Per i talebani, infatti, un battito rapido avrebbe indicato la colpa; il signor Momand si è costretto a mantenere la calma, ma ha comunque finito per passare 29 giorni chiuso in una casa di due stanze con altre 20 persone, dormendo su un tappeto sporco sul pavimento, una sola lampadina illuminata tutta la notte, prima che i suoi rapitori ammettessero che non era un membro dell’esercito afgano.

Per i comandanti locali, la moschea è un carcere ideale. «È un posto centrale del villaggio; inoltre è un posto in cui si è tenuti all’obbedienza» riferisce Ashley Jackson, co-direttrice del Centro per lo studio dei gruppi armati che ha studiato a lungo la giustizia talebana.

I tribunali talebani, particolarmente efficienti in tema di ferocia e disumanità, si sono guadagnati una certa reputazione e sono accolti con favore. Giudicano, inoltre, anche gli omicidi e le presunte infrazioni morali e religiose. Qui l’enfasi è sulla «punizione»; il sistema punitivo «si basa sulle percosse e su altre forme di tortura», ha affermato la ONG Human Rights Watch in un rapporto dell’anno scorso.

I crimini percepiti come politici, come lavorare per il governo afgano o combattere per esso, abitano un universo diverso. Non ci sono tribunali per questi crimini. I comandanti talebani locali hanno l’autorità assoluta di arrestare chiunque ritengano sospetto.

La morte è la minaccia sempre presente e a volte inflitta, ma più spesso usata come una temibile merce di scambio per ottenere ciò che i talebani vogliono: denaro, uno scambio di prigionieri o una rinuncia al servizio del governo. Si verifica anche la deliberata, spesso lenta, messa a morte dei prigionieri. Convocato insieme agli anziani del villaggio per negoziare il rilascio di suo figlio in cambio di prigionieri talebani, il signor Mohammadi ha potuto vedere suo figlio tre volte durante la breve prigionia di Nasrullah. «Hanno cercato di farlo sedere. Ma continuava a cadere», ha ricordato il signor Mohammadi. I talebani gli hanno gridato: «Vedi cosa sta succedendo a tuo figlio?».

Il giorno dopo i talebani trasferirono Nasrullah in una casa in rovina. Al nono giorno aveva perso conoscenza. Era sporco, ricoperto di urina ed escrementi. I suoi rapitori hanno permesso al signor Mohammadi di lavarlo con acqua fredda, ma era troppo tardi. «Stava morendo – ha detto il padre -L’ultima volta che l’ho visto era nel cortile della casa distrutta». Dopo la morte di suo figlio, i talebani lo tormentarono. «Perchè non piangi? mi hanno chiesto. Ho detto loro: non voglio piangere davanti agli alberi e alle pietre», ha detto il signor Mohammadi. «Ho pianto da solo».

Fonte: Adam Nossiter, New York Times, “I wake up and scream”.

Post a Comment