Sindacalismo Femminista: Per un sindacalismo della vita
Con il debito ipotecario soffriamo gli effetti di un meccanismo che acutizza tutte le violenze, perché si allaccia/lega alla situazione nella quale queste si perpetuano
Di Lotta Meri Pirita Tenhunen e Myrian Espinoza Minda*
(Testo originariamente apparso su ctxt.es. Traduzione dal castigliano di Carla Panico)
Lottare per le nostra case ha divorato gran parte del nostro tempo e delle nostre forze negli ultimi dieci anni. Come membri di Pah Vallekas, abbiamo imparato molto a proposito del sostegno reciproco, dell’organizzazione di servizi di assistenza collettiva; abbiamo imparato a leggere e capire le leggi e a decifrare le cattive pratiche bancarie, a portare avanti azione diretta e disobbedienza civile, abbiamo imparato come coordinare a livello locale e statale un movimento popolare e esercitare la capacità di essere portavoce.
L’anno scorso, inoltre, abbiamo intrapreso una ricerca collettiva su qualcos’altro che noi, le donne del gruppo, avevamo man mano imparato tra le righe: che ci muovevamo continuamente nell’intersezione tra la violenza finanziaria e immobiliare e la violenza dell’ordine patriarcale. Nel mezzo di una pandemia e in modo inestricabile dalla nostra lotta per la casa, ci siamo messe a scrivere la storia dell’espropriazione e del diritto alla casa a partire da uno sguardo femminista.
Questo testo è una parte di questa ricerca che presto si potrà leggere su carta, grazie alla rete di spazi di ricerca femminista “La Laboratoria”. Per questo 8M pandemico, questi sono i segnali di fumo che vogliamo mandare ai molti altri terreni di lotta, in chiave femminista.
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Aisha ha lottato fin da piccola per non finire maltrattata ed esausta come sua madre, ma padrona della sua propria vita. Mina ha sognato la stessa autonomia, e nella lotta per la casa ha trovato uno strumento fondamentale per non vivere sotto il comando del padre né dei fidanzati. Gicela è fuggita da un incubo di violenza machista ed è guarita dalla paura e dalla vergogna dentro PAH Vallekas. Carla si è dedicata alla lotta per la casa grazie alla sua precoce coscienza sociale e alla sua voglia di costruire comunità di quartiere con altre donne. Libertad si è fatta forza incontrandosi con altre donne in lotta ed è tornata a riconoscere il suo valore e i suoi desideri dopo lunghe decadi di annichilimento a causa del suo ex marito.
Queste siamo noi, alcune donne di PAH Vallekas, che si sono messe a parlare, a fare ricerca su sé stesse. Salvo qualche fortuita eccezione, ci siamo rese conto di essere arrivate alla lotta per la casa con un bagaglio di violenza sessista – e, per molte, razzista – che era stato inciso sui nostri corpi. Per alcune, i problemi abitativi erano già presenti fin dall’infanzia e avevano il loro background in una povertà strutturale che non le ha lasciate crescere in un ambiente sicuro. Per questo, non tutte noi siamo sempre state in grado di riconoscere l’abuso che ci troviamo ad affrontare nella nostra famiglia o nella coppia, perché ci siamo cresciute dentro, perché lo abbiamo normalizzato. In questo modo, ci portiamo addosso un numero infinito di tensioni latenti e violenze quotidiane, vissute sia nei rapporti con uomini vicini che nelle minacce da parte di sconosciuti, al cui estremo troviamo lo stupro, le minacce di morte o, quando dalle parole si passa ai fatti, il tentativo di femminicidio.
La stragrande maggioranza di noi condivide l’esperienza della migrazione. Certo, ci sono tanti tipi di migrazioni: non è lo stesso indebitarsi per migrare da una povertà quasi assoluta o attraversare l’oceano garantite dai propri risparmi e con una vita lavorativa già risolta. Tantomeno è lo stesso spostarsi dal nord globale al sud o viceversa.
I gradini della scala in cui veniamo collocate a seconda delle risorse economiche che abbiamo a disposizione hanno determinato una parte importante degli ostacoli in cui siamo inciampate lungo il percorso. Inoltre, ci siamo rese conto che, a seconda di da dove venivamo e di come erano i nostri corpi, ci era stata riservata una posizione o un’altra. Parliamo anche di esperienze di razzismo e colorismo [stratificazione sociale secondo la tonalità della pelle] o del privilegio bianco, che sono due facce della stessa medaglia e costituiscono una parte inseparabile dell’ordine patriarcale, un sistema che abbiamo imparato essere fondamentalmente razzista e coloniale.
Nonostante tutto questo, ci siamo incontrate nella lotta, fianco a fianco, per gli stessi obiettivi. Abbiamo imparato a celebrare le nostre differenze e continueremo a imparare a disfare le gerarchie che ci vengono imposte. E ci sembra che le nostre tante migrazioni abbiano davvero qualcosa in comune: il desiderio di libertà in quanto donne. È qualcosa che per tante di noi è stato necessario difendere dall’imposizione del lavoro di cura, considerato che molte migrazioni sono state anche fughe da un destino di badante scritto in partenza. Parlarne ci ha aiutate a mettere in parole la violenza indiretta implicita nella divisione sessuale del lavoro e nel sovraccarico familiare che ci strappa le nostre forze vitali.
Con il debito ipotecario abbiamo subito gli effetti di un meccanismo che ha esacerbato tutte le violenze, perché è connesso alla situazione in cui queste si perpetuano. Il debito ci blocca in un unico posto e ruba il tempo presente e futuro.
È, per antonomasia, l’estrazione della nostra forza di lavoro e di vita, è violenza. Ma ciò che tutte le forme di violenza immobiliare hanno in comune con la violenza ipotecaria è che si oppongono tutte alla logica della casa come diritto e, per tanto, si oppongono alla vita.
Non ci rifiutiamo di parlare con coloro che ci fanno violenza, ma guardiamo sempre all’obbiettivo di cambiare il rapporto di forza. Sappiamo che tutti loro, persino le aziende più gigantesche, funzionano grazie a persone reali con nomi e cognomi che prendono quotidianamente decisioni che si concretizzano nella violenza immobiliare che affrontiamo.
La lotta inizia sapendo chi ti fa violenza, dandogli un nome e rendendo visibile la violenza che esercita. Essendo tante, facendo uso dei pochi diritti che ci restano, denunciando ogni violazione e formulando un discorso comune che esiga più diritti, possiamo vincere. E lungo la strada smetteremo di vederci come semplici vittime della situazione per trasformarci in protagoniste della nostra stessa vita.
Si tratta di una lotta impura agli occhi di qualsiasi formulazione puramente ideologica e di una lotta parziale, in cui ogni piccola vittoria deve essere trasformata in carburante per continuare il giorno successivo.
In questi due aspetti è molto simile al femminismo come forma di vita. E gradualmente abbiamo visto come le pratiche apprese nel gruppo abbiano permeato anche altri ambiti.
Condividiamo la sensazione di un’espansione; sentiamo che non possiamo più separare la nostra lotta per la casa dal resto della lotta che è la vita. Quando abbiamo cercato di nominare di cosa si trattasse nel concreto, sono emerse alcune definizioni come: “Sono riuscita finalmente a togliermi di dosso una zavorra”; “Non ho né la forza né il tempo, voglio uomini e banchieri parassiti fuori dalla mia vita”; “Ho imparato a dire la verità al potere” (Speaking truth to the power), come dicono gli anglofoni, “sapendo che costa, che ha un prezzo che molte volte è reale, ma che avere la possibilità di spiegare in faccia il danno che fanno, rende noi stesse più intere come le donne”; “Ho guadagnato una mia voce”, però, una voce che non è più individuale, ma “una voce mescolata ad altre, arricchita dalle mille esperienze e dalla forza di altre”. Suona familiare?
Sindacalismo sociale, così stiamo chiamando le nostra pratica da alcuni anni.
Sindacalismo perché, proprio come quelle che lottano per condizioni dignitose nel lavoro di pulizia, cura, sesso, insegnamento o sanità, le donne che lottano per la casa reclamano uno spazio che garantisca che possano continuare a lavorare con dignità anche quando quel lavoro non è riconosciuto come tale.
Facciamo di tutta la vita ciò che fa il sindacalismo: ci uniamo per essere più forti e riuscire ad imporre una contrattazione collettiva a chi ci sfrutta. Sociale, perché il lavoro che si svolge nelle case per le quali lottiamo è il sostegno di tutta la società.
Siamo stanche di tenere in piedi il mondo gratis, quindi esigiamo una riduzione parziale o totale del prezzo del nostro luogo di lavoro gratuito.
Che si tratti di un mancato pagamento dell’affitto, di un mutuo inadempiente o di una casa ripresa dalla banca, ci offriamo di pagare il 10-30% delle nostre entrate mensili.
Sindacalismo femminista, abbiamo iniziato a dire solo di recente, perché ci siamo trovate con altre e altrə che lavorano in settori precarizzati o informali e capiscono, senza troppi giri di parole teorici, che le nostre lotte sono una e la stessa.
“Siamo tutte lavoratrici”, abbiamo potuto dire quando ci siamo incontrate, il primo fine settimana dello scorso dicembre, nell’incontro “Il femminismo sindacale che viene” ( “El feminismo sindicalista que viene”). Ora vogliamo che tutte sappiano che se ci organizziamo, possiamo intervenire affinché nella nostra società la casa soddisfi le esigenze della vita e non quelle del Capitale della rendita parassitario.
Possiamo disobbedire, non pagare, riprendere, prendere e trasformare in una risorsa comune ciò che una volta era oggetto di speculazione. Possiamo dotarci di una rete che si espande da una casa all’altra, e risponda quando tiriamo la cordicella, che sia per chiedere aiuto quanto per offrire ciò che abbiamo da condividere.
All’inizio siamo rimaste colpite dalla trasformazione della vulnerabilità in forza attraverso l’organizzazione collettiva. E dopo poco, non ci bastava più consigliarci a vicenda e sostenerci quando avevamo problemi con la casa.
Abbiamo iniziato a sognare che il sostegno reciproco si estendesse al terreno della vita personale e familiare, che ci fosse possibilità di incorporare i più piccoli nella comunità in un modo che porti loro felicità. Il nostro ambiente privato stava diventando comune, condiviso… e, quindi, politico.
Non vogliamo più intendere la casa come la prigione dei lavori domestici, ma come lo spazio in cui trovare i nostri propri desideri e dispiegare la nostra espressione creativa; un rifugio per prendersi cura della vita in tutte le sue fasi e forme e, soprattutto, come luogo in cui e da cui rovesciare il sistema che cerca di dettare come dovremmo vivere e ci fa violenza ad ogni passo per farci obbedire.
Per andare avanti dobbiamo resistere, aggrapparci a ciò che abbiamo già per distribuirlo tra tuttə, non permettere che ci isolino e sfilaccino le nostre comunità, per quanto embrionali o fragili possano sembrarci. Per andare avanti dobbiamo, insomma, non mollare. Difendiamo il diritto a una vita degna in una casa degna, per tutte, per tuttə. Per questo 8M ci convochiamo a nominarci sindacaliste della vita.
* Lotta Meri Pirita Tenhunen (@sydansalama) e Myrian Espinoza Minda (@NoNomecallo) sono femministe e membri del gruppo di donne della Plataforma de Afectados por la Hipoteca de Vallekas (@pahvallekas)