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Intersezionale

Se non ti occupi di politica la politica si occuperà di te, chiudendoti a casa

Immagine in Copertina foto Bettina Flitner / Contrasto

Intervento di Sara Gandini per i SETTANTACINQUE ANNI della CASA DELLA CULTURA di Milano, Martedì 16 marzo 2021 Primo Seminario Rossana Rossanda dal titolo “Contraddizione donna. La rivoluzione più lunga”

https://www.casadellacultura.it/1209/settantacinque-anni-di-casa-della-cultura

Titolo del mio intervento: Se non ti occupi di politica la politica si occuperà di te, CHIUDENDOTI IN CASA. Tra scienza e politica, lo sguardo di una femminista.

Rossanda scrisse recentemente: «Ho esitato un attimo a definirmi “femminista” anche se credo di esserlo, non c’è battaglia delle donne che io non condivida» e aggiunse «il femminismo ha cambiato alcune categorie del mio pensare».

Tuttavia rimproverava alle femministe una “predilezione per l’orizzonte privato”.

Io sono nata nel 68 e sono una figlia del femminismo e mi riconosco nella necessità, che vedevo anche in Rossanda, di lottare in prima persona quando sento un profondo senso di ingiustizia. Così voglio ricordare le sue parole quando disse: “Non conosco lo sfruttamento, ma solo il lavoro, non conosco l’alienazione, ma solo la fatica; non conosco l’umiliazione, ma solo le sconfitte, quelle che non fanno abbassare il capo. Questo è un destino privilegiato e non cessa di esserlo se metto le mie energie al servizio d’una causa di liberazione di tutti. La mia storia politica è lo sforzo di mettere me stessa da parte, per paura che, se no, non riuscirei ad ascoltare le voci degli altri”.

Io ho imparato in realtà dalle femministe a non mettere da parte me stessa e a partire da me, ma credo che questa postura, radicata in un profondo senso di giustizia, sia assolutamente necessaria soprattutto in questo momento storico cruciale, segnato da un forte individualismo ed egoismo, in cui io ho sentito la mancanza di senso politico, di senso critico, nel leggere la pandemia, anche a sinistra e nel femminismo.

Essendo epidemiologa/biostatistica ho sentito da Marzo 2020 l’urgenza e la responsabilità di scrivere sulla pandemia, partendo dalle competenze acquisite con il mio lavoro e dalla pratica politica nel femminismo. Appoggiandomi all’esperienza del mio essere scienziata, partendo quindi dalle mie competenze ma anche dal mio essere donna e madre, sono intervenuta spesso pubblicamente con l’intenzione di rendere politica la rabbia, da qui il titolo di un articolo scritto per Effimera durante la prima ondata, che mi ha messo contro buona parte della cosiddetta sinistra e del mondo femminista da cui vengo.

Ho parlato di rabbia perché da decenni siamo in mano a classi dirigenti che hanno portato il paese allo sfascio, tagliando in primis sanità e scuola. La rabbia veniva anche dalle tante insensatezze che vedevo intorno a me, per ultima la gestione della scuola, ora di nuovo completamente chiusa, ad un anno dalla pandemia.Silvia Vegetti Finzi invita spesso a ripensare e ritrovare il desiderio di maternità in un’epoca in cui si fanno sempre meno figli, ed io sono assolutamente d’accordo con lei, per me è stata una esperienza fondamentale della mia vita, nonostante io abbia dedicato molte energia anche alla mia professione che mi ha portato molto all’estero. Alla libreria delle donne di Milano parlavamo dell’importanza del doppio sì, alla maternità e al lavoro. Ma con governanti di questo tipo, che si dimenticano delle difficoltà delle madri che lavorano, che non danno importanza all’aumento della disoccupazione, non mi stupisce che non si vogliano più fare figli. Fortunatamente sembra che queste ragazze abbiano ancora fiducia nelle loro madri. Ed io sento la necessità di continuare a lottare anche per loro, per le ragazzine come mia figlia ora 18enne, che sono state completamente dimenticate.

Non si può quindi far altro a mio parere che partire da questi sentimenti e tensioni che ci attraversano. Mi riferisco alla rabbia, intesa come sentimento legato al senso di ingiustizia, perché penso possa essere un motore politico e sono convinta che solo se si interviene in prima persona, seguendo quella che si sente come una lettura vera del mondo, qualcosa di buono può accadere e il mondo orientarsi di conseguenza. Ho sentito quindi fortemente fin da subito la necessità di espormi in prima persona per dire ciò che sentivo come vero e giusto, sperando che far circolare un pensiero critico potesse attivare un processo di condivisione di riflessioni, di creare le occasioni perché nascesse intelligenza collettiva, ma ho patito gli attacchi personali e l’aggressività di questo periodo. Infatti pochissimi si esponevano perché non appena esprimevi delle perplessità immediatamente venivi etichettato come pro Bolsonaro, pro confindustria… Ma proprio dal femminismo ho imparato a puntare sull’indipendenza simbolica e non farmi condizionare da schemi ideologici.

Dal femminismo ho imparato che non posso tenere separato il mio essere scienziata dal resto della mia vita, che essere una donna di scienza conta, e che è necessario prendersi la responsabilità di dire la verità. Dico questo sapendo che anche in ambito scientifico si tratta sempre di una verità soggettiva, non assoluta, ma parziale. E il prendere parola deve partire dalla consapevolezza della parzialità del proprio sapere, sapendo quanto è difficile ribadire questo aspetto in un momento come questo in cui c’è una forte richiesta di verità assoluta, di certezze, soprattutto nei confronti della scienza. Le persone hanno necessità di placare le ansie e di fare affidamento sul sapere dell’esperto, che sa, che conosce e che quindi può guidare. Ma proprio dal femminismo viene quella riflessione sul mondo, che insegna a riconoscere la soggettività in ogni disciplina, a dubitare dell’oggettività e svelare quel punto di vista maschile che storicamente vuole imporsi come universale.

Voglio quindi brevemente ricordare il lavoro di Evelyn Fox keller che ha mostrato come sia fondamentale analizzare il linguaggio usato anche dagli scienziati perché svela il simbolico che li guida, il senso che danno al loro muoversi nel mondo, e come questo influenza anche le loro ricerche. Anche con il covid l’uso del linguaggio ha rivelato aspetti importanti su come è stata gestita l’emergenza. Si è visto ad esempio che la narrazione che è stata fatta della pandemia rimandava continuamente ad un linguaggio bellico e ad un simbolico maschile che ha segnato anche il modo con cui è stata gestita. Un problema di salute pubblica è stato trasformato in uno scenario di “protezione civile”, tanto che nella narrazione il virus è diventato un nemico invisibile che può colpire mortalmente ovunque e chiunque, con i medici e gli infermieri in trincea…

In tutti questi mesi ho scritto e sono intervenuta pubblicamente, sui social e non solo, per cercare di placare le paure, perché il terrore arrivava quotidianamente dai media e la paura è un fantastico strumento di repressione dell’intelligenza collettiva. Anche perché in questo momento credo sia necessario allargare il quadro e guardare lontano, non solo all’urgenza presente: il problema è il virus o la società in cui viviamo?

Il problema è che abbiamo subito una narrazione esasperata dai media, tutti, di sinistra e di destra, che hanno fatto un lavoro pessimo, avendo bisogno di vendere la notizia drammatizzavano all’occorrenza, creando eventualmente la notizia, cosa non nuova per altro. Voglio quindi di nuovo ricordare Rossana Rossanda che incitava come giornalista a leggere, a studiare prima di scrivere, e sottrarsi alla urgenza della quotidianità per avere una chiara interpretazione del mondo e collocare l’ultimo fatto da narrare dentro il quadro ampio. Cercare di comprendere a fondo gli eventi prima di prendere posizione per un giornalista è difficile, incalzati dagli eventi e dalla necessità di scrivere, ma ha portato Rossanda a poter prendere posizioni eretiche poi rivelatesi acute.

Quello che sta accadendo ora è che la pressione dei media, pur di vendere la notizia, sfrutta lo scetticismo nei confronti della medicina e della scienza. Scetticismo che io capisco. Con la pandemia si è visto come la comunità scientifica si è ritrovata in scacco, incapace di tenere la complessità e di farsi capire. In più sappiamo tutti come la logica del mercato entri sempre più nell’ambito della cura e della scienza, avendo come unica misura, come unico simbolico, il denaro.

Per questo dico da tempo che non si può pensare di separare la scienza dalla politica e gli scienziati devono prendersi la responsabilità delle loro parole per le ricadute che hanno sulla società. La pandemia è un problema essenzialmente politico, lo è stato fin dall’inizio. E voglio di nuovo ricordare Rossana Rossanda che diceva: se non ti occupi di politica la politica si occuperà di te.
Per questo come scienziata considero fondamentale studiare l’effetto che può avere a lungo termine sulla salute di tutti gli abitanti bloccare un intero paese e chiudere la scuola per mesi e mesi. Inoltre va ribadito che questa pandemia non colpisce tutti nello stesso modo. Noi non siamo in realtà di fronte ad una pandemia ma ad una sindemia, perché a differenza della pandemia, che indica il diffondersi di un agente infettivo in grado di colpire più o meno indistintamente con la stessa gravità chiunque, la sindemia colpisce in modo particolare alcune categorie sociali. Parlare di sindemia vuol dire sottolineare che si tratta di una malattia la cui prognosi è dettata dalla concomitanza di altre patologie la cui frequenza è significativamente maggiore nelle classi sociali più svantaggiate.


Le malattie croniche concomitanti, che aumentano il rischio di mortalità per Covid-19, sono legate a fattori socio-economici e spesso dovute a fenomeni eliminabili se si rinnovassero le politiche pubbliche su ambiente, salute e istruzione. È quindi essenziale riconoscere le cause sottostanti, quelle strutturali, e intervenire sulle condizioni in cui il virus diventa letale, altrimenti nessuna misura sarà efficace. Inoltre va detto che le misure restrittive a lungo termine possono aumentare le diseguaglianze sociali e creare un vero e proprio circolo vizioso che riduce i redditi già bassi e in fine l’aspettativa di vita delle classi sociali più in difficoltà.

Mentre il capitalismo sta già facendo di questa vicenda l’ennesima occasione di sviluppo. Naomi Klein con il suo discorso sul ‘screen new deal’ spiega che la pandemia è una fantastica occasione per i giganti della tecnologia che stanno approfittando della situazione con politiche aziendali che minacciano di distruggere il sistema educativo e sanitario: telemedicina, scuola virtuale, didattica digitale…

Concludo dicendo che il linguaggio della politica che ha puntato sulla paura ha mostrato derive autoritarie e paternaliste che mostrano il fallimento del patto tra stato e cittadino: ai cittadini non si chiede di comportarsi responsabilmente perché i giovani per definizione sarebbero incoscienti, gli insegnanti egoisti e fannulloni, in generale i cittadini sarebbero per definizione analfabeti funzionali, a cui è necessario imporre misure estreme dall’alto, perché non sarebbero in grado di agire con buon senso… Il patto tra cittadini e politici, istituzioni, non è quindi più basato sulla ragione e sul rispetto reciproco, ma sull’interesse personale e la paura.

Da mesi la retorica è quella del sacrificio: per qualche mese, fino all’arrivo del vaccino, ci vuole l’immunità di gregge… Ma se l’emergenza diventasse la nuova normalità? Se ci abitassimo piano piano a tutto questo e la didattica a distanza, il lavoro da casa senza orari, l’isolamento degli anziani negli ospedali, la sfiducia nei cittadini, la paura continua della malattia, la paura dell’incontro con l’altro da sé, la necessità di non fare assembramenti, diventassero la nuova normalità? E se la prossima pandemia non fosse distante?

Ecco, io penso che ci sia bisogno di quel sapere femminista che conosce l’importanza della pratica di relazione, del sapere del corpo, dello scambio in presenza, della libertà relazionale, e che sappia far tesoro delle contraddizioni messe al centro della pandemia.

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