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Maschilità oblique: un prisma di contraddizioni

Quello che state per leggere è frutto di esperienze personali e singolari, che non vogliono né assolvere, né colpevolizzare, in una dicotomia che ancora una volta, è intrisa di maschilità. L’obiettivo è piuttosto politicizzare il personale, dargli un significato oltre la mera sfera privata, individuale e soggettiva.


Quando per la prima volta ho attraversato uno spazio transfemminista, l’ho fatto come “uomo”, eppure nonostante questo fosse evidente, nonostante il privilegio riconoscibile che mi veniva indicato, la mia presenza negli ambienti misti era contraddittoria, obliqua. In questa condizione, ho cominciato a chiedermi cosa significasse essere un uomo GBT+
Se da un lato, infatti, noi uomini queer rimaniamo uomini, siamo manchevoli, deficitari della pienezza del Vir cis-eterosessuale. Questo crea un posizionamento schizofrenico che fa della contraddizione il proprio terreno privilegiato di manifestazione, sfidando ogni essenzialismo di sorta.


Partiamo da un punto di vista decostruzionista.


Il transfemminismo risponde alla falsa dicotomia sul genere come dato biologico-ontologico vs dato sociale-comportamentale con la teoria della performatività: il genere non è né un frutto dei nostri genitali ma nemmeno qualcosa che si sceglie, si autodetermina come per magia, quanto un ordine prediscorsivo in cui siamo calatə, che riproduciamo con le nostre azioni performative, legittimando lo stesso Vorrede (un discorso che sta prima, ma anche sta di fronte, che gli conferisce un determinato significato).


Questa prospettiva ci indica un dato comune nelle prospettive in lotta una neofondamentalista, una individualista ovvero l’assioma liberale in cui si muovono: quello del soggetto sovrano prodotto.

Da un lato infatti abbiamo il Soggetto determinato dalla propria biologia, che risponde ad una sorta di “fenomenologia del pene”, dall’altro abbiamo un soggetto determinato dalla propria scelta individuale, che risponde ad una sorta di libero arbitrio alienato dal contesto. Entrambi gli approcci condividono due presupposti: in primis abbiamo un soggetto coerente, stabile, fisso che non accetta la contraddizione dell’esistenza, in secundis abbiamo un soggetto che determina il proprio presente a partire da un’ontologia fissata nel passato dell’origine biologica o della scelta. E se fosse questa visione del soggetto il problema?


E se questa visione fosse ciò che si pone come limite (penso alla questione delle donne T rispetto al “soggetto Donna”) nella comprensione del funzionamento del potere?
Deleuze ha criticato il soggetto a partire dalla schizofrenia, che mostrerebbe come la coerenza di un’esistenza razionale, non sia altro che una performance ideologica di ciò che è reale.
Vorrei qui provare a fare lo stesso a partire da ciò che definisco maschilità obliqua, ovvero quella maschilità contradditoria, mutevole, che obliquamente transita fra potere patriarcale e femminilizzazione.


In tale movimento è evidente quanto sia influente l’espressione di genere, che al di là dell’“Io sono”, costruisce la dinamica pre-discorsiva dell’interazione sociale.


Quando attraversavo degli spazi (sociali, politici, quotidiani e non) con un’espressione di genere “maschile”, la mia queerness non era rilevabile, gli uomini mi si approcciavano da una posizione di orizzontalità (che in realtà ribadiva la verticalità rispetto al grande Altrə, la donna). Questo era ovvio soprattutto nelle interazioni sessuali in cui altri uomini “riverivano” questa maschilità performativa: ero fuori dal peso dello sguardo maschile perché dovevo essere io quello sguardo. Tutto cambia non appena la mia espressione di genere muta. Comincio a ricevere foto non richieste, atteggiamenti predatori, fino ad arrivare a veri e propri abusi in cui spesso venivo appellato al femminile, cosa di per sé fatta da me medesimo, ma che in quelle specifiche situazioni aveva un significato altro, come a ribadire un “Tu” scarto di questo “Io” sovrano.


Per la prima volta sentivo il peso dello sguardo maschile, uno sguardo che crea uno scarto fra il Soggetto (Io) e l’Oggetto (il Tu reificato in questo Es).
Ogni soggetto, al di là della sua continua moltiplicazione astrattamente democratica, non considera per sua natura un ontologico ripiegamento nell’Io, che per sua stessa natura esclude l’Altrə, trasformandolə in un oggetto parziale (Es) che ha senso solo a partire dal divenire dell’esistenza di questo Io sovrano.
In questi momenti l’obliquità mi si è palesata: io soggetto maschile, stavo scivolando verso un’alterità che conosce diverse sfumature; pur conservando il mio innegabile privilegio, ho cominciato a percepire la “femminilizzazione”.

Questo processo è andato ben al di là delle app e delle feste, ma si è fatto anche una vera e propria questione politica. Ad un tratto, sono diventato un medium, mi sono reso conto di far parte in alcuni spazi di una quota queer, che si facesse da ponte rispetto alla dirigenza maschile dei collettivi e “l’area donne”, mera appendice della prima.


Questo è diventato chiarissimo quando sollevando dei dubbi su alcuni comportamenti tossici all’interno di un’organizzazione in cui militavo anni fa, mi è stato detto che non era il luogo adatto e sono stato “indirizzato” data questa “inclinazione”, alla “Commissione Donne”, una sorta di box in cui tale questioni vengono relegate, per non occuparsene davvero.
La mia presenza in questo spazio al femminile, dato che questo non ha voce in capitolo nell’organizzazione reale (e su questo potremmo dire tantissimo nelle varie organizzazioni della sinistra varia in questo Paese), aveva lo scopo di farmi da canale: se i compagni non ascoltano noi, ascolteranno te che sei maschio, che hai questa voce per intervenire, però hai anche un orecchio rivolto verso di noi.


Questo meccanismo perverso ha una doppia subordinazione: da un lato ribadisce la gerarchia in cui le compagne non hanno davvero voce in capitolo nelle organizzazioni miste, dall’altro se il “soggetto donna” non viene ascoltato, si passa al gradino successivo ovvero il “soggetto femminilizzato” che sussume il ruolo di caregiver nei confronti di compagni completamente deresponsabilizzati nei confronti delle loro azioni.
E qui torniamo all’essenzialismo del Soggetto: da un lato abbiamo l’essenzialismo biologico che determina la donna come soggetto di cura naturale, dall’altro un essenzialismo comportamentale che fa del soggetto queer femminilizzato un nuovo soggetto di cura quando il primo non riesce ad assolvere al “dovere”.


In questa dicotomia si perde il vero soggetto della decostruzione ovvero la maschilità egemonica.


Tale maschilità obliqua ha però il potenziale di dimostrare i limiti di queste prospettive che pongono la radice della soggettività nel passato, non considerando come la performatività pre-discorsiva del genere produce il presente continuamente. Se la soggettivazione ci permette di riconoscere le maglie del potere, la tossicità del ruolo, allo stesso tempo non deve diventare un orizzonte che si chiude con l’identità fissa ma anzi un’apertura all’esistenza del futuro, un’esistenza in cui il Soggetto Sovrano smetta di tessere le catene di significanti che subordinano ə non uomini, ə non etero, non bianchə, non ricchə all’Individuo Neutro declinato nel Padre, patriottico, patriarca e proprietario. È proprio a partire dalla nostra obliquità che possiamo comprendere il nostro essere gettati nel mondo, una condizione che non determina cosa dobbiamo essere ma ci indica cosa possiamo essere.

Davide Curcuruto (1996) messinese laureando in Sociologia e Ricerca Sociale fra l'Università di Bologna e la Humboldt Universität di Berlino, attivista Queer nel collettivo La Mala Educación e la rete B-Side Pride. I suoi interessi accademici di inseriscono nell'intersezione fra la Sociologia Economica, i Gender e Subaltern Studies nel contesto mediterraneo.

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