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Intersezionale

FARANNO DESERTO E LO CHIAMERANNO PACE

Per creare Israele, le forze sioniste hanno attaccato le principali città palestinesi e distrutto circa 530 villaggi*.

Circa 13.000 palestinesi furono uccisə nel 1948, con più di 750.000 palestinesi espulsə dalle proprie case che divennero rifugiatə in terra straniera: il culmine della pulizia etnica della Palestina da parte del movimento sionista.

Oggi i/le rifugiatə e i/le loro discendenti sono più di sette milioni. Moltə ancora languono nei campi profughi dei paesi arabi vicini, in attesa di tornare nella propria terra.

Da allora Israele viola reiteratamente i diritti umani della popolazione palestinese, una volontà criminale e terroristica nel compiere stragi civili tra cui uccisioni illegali, limitazioni della libertà di movimento, del diritto alla salute, arresti e detenzioni arbitrarie anche di minori, discriminazioni, torture, altri maltrattamenti e morti in custodia

Tra le violazioni sistematiche dei diritti umani, c’è la famigerata Operazione Piombo Fuso a Gaza in cui si configurano dei veri e propri crimini di guerra.

Era la mezzanotte del 27 dicembre 2008 quando Israele decise di lanciare un’offensiva aerea nella striscia di Gaza che viene descritta di un’intensità senza precedenti nei Territori dal 1967.

«Il mio appartamento di Gaza dà sul mare. Ha una vista panoramica che mi ha sempre riconciliato il morale, anche quand’ero affranto per la miseria a cui è costretta una vita sotto assedio. Prima di stamattina. Quando dalla mia finestra si è affacciato l’inferno. Ci siamo svegliati sotto le bombe oggi a Gaza, e molte sono cadute a poche centinaia di metri da casa mia. E molti miei amici, ci sono rimasti sotto.»

Raccontava Vittorio Arrigoni, uno dei pochi internazionali, che decise di rimanere a Gaza a testimoniare il feroce massacro e che informò su quanto accadde, rilasciando interviste e scrivendo sul suo blog “Guerrilla Radio”, che in quelle settimane diventò uno dei blog più visitati in Italia.

«Non ce ne andiamo, perché riteniamo essenziale la nostra presenza come testimoni oculari dei crimini contro l’inerme popolazione civile ora per ora, minuto per minuto. […] Non siamo fuggiti come ci hanno consigliato i nostri consolati, perché siamo ben consci che il nostro apporto sulle ambulanze, come scudi umani e nel dare prima assistenza ai soccorsi, potrebbe rivelarsi determinante per salvare vite. […] Personalmente, non mi muovo da qui, perché sono gli amici ad avermi pregato di non abbandonarli. Quelli ancora vivi, ma anche quelli morti, che come fantasmi popolano le mie notti insonni. I loro volti diafani ancora mi sorridono.»

L’arma utilizzata dalle forze di occupazione durante l’operazione, come si evince dal nome, è il fosforo bianco, un’arma chimica particolarmente reattiva che non appena entra in contatto con l’aria prende fuoco e comincia a rilasciare densissime colonne di fumo bianco,

Il fuoco del fosforo bianco non si può spegnere, non smette di bruciare fino a quando il materiale non si è completamente consumato e questo può portare alla nascita di roghi inestinguibili anche per giorni.

Quando brucia i fumi si inerpicano per le vie respiratorie di chi gli sta vicino. Brucia i tessuti molli ed ossa fino a calcificarle.

Con il cessate il fuoco del 18 gennaio 2009 e il ritiro delle truppe israeliane, Gaza appariva un campo di rovine.

Circa 1396 le persone uccise, 4000 case distrutte, 5 scuole dell’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) ridotte dalle cannonate a un cumulo di macerie.

I raid aerei e l’artiglieria israeliani hanno distrutto anche decine di edifici pubblici, una ventina di moschee, 18 scuole, 215 cliniche mobili, 28 ambulanze.

Le conseguenze dell’attacco contro la Striscia di Gaza assediata rimangono ancora e come dichiarato dall’Onu l’operazione militare era diretta all’intera popolazione di Gaza, semplicemente per essere palestinese.

Piombo Fuso non è stata la prima operazione in cui venivano violati i diritti umani e non è stata nemmeno l’ultima, infatti l’8 luglio 2014 Israele decide di lanciare l’operazione ‘Margine Protettivo’ nella Striscia di Gaza.

L’offensiva si conclude il 26 agosto, dopo 51 giorni nei quali l’aviazione aerea israeliana ha bombardato scuole, ospedali, moschee, infrastrutture civili e ogni parte della striscia di Gaza gettando gli/le di abitanti, rinchiusi in un territorio di 360km2, in una crisi economica e in una disperazione senza precedenti.

I bombardamenti e le incursioni via terra dell’esercito israeliano hanno causato la morte di più di 2.200 palestinesi, di cui 1.462 civili.

L’entità della devastazione e della sofferenza a Gaza non ha precedenti e avrà un impatto sulle generazioni future.

Poche settimane fa, tra il 10 e il 21 maggio 2021, l’esercito israeliano ha dato via a una nuova operazione, denominata “Guardiano delle Mura”, nella striscia di Gaza.

In 11 giorni di costanti attacchi aerei, sono statə uccisə 254 palestinesi e 1948 sono rimastə feritə.

Le autorità di Gaza stimano che circa 2000 abitazioni sono state distrutte dai bombardamenti israeliani e oltre 15000 quelle danneggiate.

I media occidentali quando hanno parlato delle sopracitate operazioni, ma più generalmente ogni qual volta decidono di parlare della questione palestinese, parlano di conflitto, scontri e guerra facendo finta di non capire che non c’è una guerra, non ci sono due eserciti che si danno battaglia su un fronte: c’è una repressione in corso, è un assedio unilaterale condotto da forze armate, fra le più potenti del mondo, che attacca una striscia di terra, dove la popolazione è sempre più povera e affamata e dove c’è una resistenza (male) armata la cui unica forza è quella di essere pronta al martirio.

I social network sono stati l’unica finestra che ci ha permesso di rimanere informatə su ciò che accadeva in Palestina, arrivavano ora per ora, minuto per minuto, esperienze dirette della tragica situazione, che hanno raccontato essere più drammatica di quella del 2014.

“Questa notte ho messo i bambini a dormire nel nostro letto. Così se dovremo morire, moriremo insieme, e nessuno dovrà vivere per piangere la perdita l’uno dell’altra.”

scrive su Twitter Eman Basher, una giovane donna palestinese.

Le testimonianze e le parole dei/delle palestinesi ci hanno fatto rimanere sveglə la notte, in continuo aggiornamento. 

Ci hanno fatto sentire il dolore, la paura ma anche la forza e il coraggio di un popolo abbandonato dalle istituzioni politiche internazionali ma che continua a portare avanti una ardita resistenza.

Ci hanno fatto sentire connessi e parte di un popolo che è più vicino di quanto crediamo.

In quei giorni i bombardamenti non sono stati l’unico attacco infatti gruppi di sionisti si organizzavano e marciavano per le città di tutto il paese armati, picchiando, gassando e linciando i palestinesi.

Hanno distrutto le proprietà di arabi, attaccato i credenti che uscivano dalle moschee, picchiato gli arabi che incontravano per strada.

 «È difficile essere una palestinese, in qualunque condizione. Sia che ti trovi in Israele, in Cisgiordania, a Gaza, Gerusalemme o in esilio, la realtà è che è difficile essere palestinese. È questa la ragione per cui combattiamo, per cui esiste la resistenza, per cui facciamo arte e per cui sono qui. Non importa chi sono nè da dove vengo, credo che tutti abbiano uno scopo: esistere.»

Saleh Bakri attore palestinese 1977

Attualmente la Cisgiordania – chiamata anche West Bank, con riferimento al territorio che si trova sulla riva occidentale del fiume Giordano, in cui troviamo città come Gerusalemme, Betlemme, Ramallah, Neblus, Hebron, Jericho e Jennis – insieme alla Striscia di Gaza vengono riconosciute come Palestina dalla comunità internazionale.

Secondo la legge internazionali, questi due territori dovrebbero essere territori palestinesi senza quindi la presenza di Israele ma quest’ultima li ha occupati illegalmente e illegittimamente, come il resto della Palestina.

Infatti l’entità sionista ha il controllo su tutto ciò che esce ed entra dai Territori palestinesi e spesso vieta l’ingresso di cordoni umanitari, aiuto medico, cibo e giornalistə.

Nel 2005 Israele decide di ritirarsi da Gaza limitando qualsiasi forma di libertà di movimento in uscita dal territorio, la popolazione è letteralmente ‘intrappolata’ all’interno, e questo è uno dei (tanti) motivi per cui la Striscia di Gaza viene definita ‘prigione a cielo aperto’.

All’interno dell’enclave la popolazione può circolare liberamente, a differenza della Cisgiordania in cui ci sono vari Checkpoint e posti di blocco che secondo le autorità israeliane servono alla sicurezza ma che di fatto seguono la strategia di Israele di rendere ai/alle palestinesi la vita impossibile per costringerli, indirettamente, ad andare via; infatti se unə palestinese vive a Nablus, ma è direttə a Betlemme, rischia di vedersi rispedire indietro dai soldati, ma non sempre perché le regole dei checkpoint sono applicate in modo arbitrario, con un metodo che rende frustrante la vita dei/delle palestinesi.

DYKT Mohigan, CC BY 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by/2.0, attraverso Wikimedia Commons

Ogni checkpoint è diverso dagli altri. Alcuni aprono all’alba e chiudono al tramonto, non lasciando passare nessuno durante la notte; altri di notte restano chiusi ai veicoli ma aperti ai pedoni. Altri cambiano regole ogni giorno. Ci sono checkpoint permanenti e i “checkpoint volanti” ovvero dei posti di blocco che funzionano solo per qualche ora e sono controllati da due o tre soldati che possono decidere di non fare passare una persona solo per un capriccio individuale.

Tutto ciò si trasforma in fonte di estenuante frustrazione, umiliazione e rabbia.

Nei checkpoint i/le palestinesi devono sopportare anche una pressione crescente poiché questi sono luoghi spesso protagonisti di violenze e omicidi da parte delle forze di occupazione.

Una delle prepotenze più crudeli, che spesso le forze di occupazione attuano, è quello di trattenere arbitrariamente le ambulanze, a volte per ore e secondo il gruppo palestinese di monitoraggio dei diritti umani, almeno 71 palestinesi sono morti perché trattenuti senza motivo.

La limitazione di libertà di movimento rende impossibile visitare luoghi sacri, come la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, senza il permesso di Israele.

I/le cittadinə della Cisgiordania non hanno la libertà di visitare la striscia di Gaza – e viceversa – vedendosi così impedito il diritto di vedere i propri cari.

Anche visitare paesi esteri diventa un impresa dato che Israele non permette ai Territori palestinesi di avere un proprio sistema ferroviario o aereo e quindi per viaggiare all’estero devono prima avere il permesso dall’entità sionista e poi andare in Giordania e prendere lì l’aereo. 

Il discorso è diverso per i/le palestinesi che vivono in quello che viene riconosciuto come Israele – ma che i/le palestinesi preferiscono chiamare ‘territori del ‘48’ – in cui ci sono aree ancora popolate da palestinesi tra cui Yafa (ma che i sionisti, campioni di cancel culture, chiamano Tel Aviv) Haifa, Nazareth, Akka e Safad, che possono circolare liberamente ma questo non vuol dire che non sono discriminatə dai coloni o dalle forze politiche israeliane che lə trattano come cittadinə di serie b per il semplice motivo di essere palestinesi.

Nel 2017 l’Onu annunció che la Striscia di Gaza sarebbe diventata invivibile nel 2020: la disoccupazione supera il 50%, il 97% della popolazione non ha accesso all’acqua pulita e ha poche ore di elettricità al giorno, questo perché Israele impone un blocco terrestre navale e nulla e nessuno entra o esce senza l’approvazione di Israele.

Ma la situazione non è meno grave in Cisgiordania. Secondo Oxfam, in tutti i Territori Occupati, a fine 2019, 2,5 milioni di persone dipendevano dagli aiuti umanitari e due milioni vivevano senza acqua pulita.

In questa situazione il silenzio del ‘mondo civile’ diventaam assordante.

Il 15 maggio 2021 è stata lanciata una data internazionale in sostegno alla resistenza del popolo palestinese e contro l’oppressione e la violenza coloniale di Israele.

Alla chiamata hanno risposto 23 stati, oltre 200 città.

In Francia, Darmanin, il ministro dell’Interno francese ha ordinato il blocco immediato delle manifestazioni a supporto della Palestina in tutto il suolo francese.

Gli/le attivistə hanno però risposto che “se la Francia è determinata a fermarci, noi siamo determinati a lottare per la Palestina libera”.

Le manifestazioni in tutto il mondo hanno dimostrato che esiste qualcuno in cui credere, che se il destino dei palestinesi non è di grande preoccupazione per le istituzioni mondiali, fortunatamente c’è un infallibile solidarietà internazionale dal basso che si unisce alla campagna BDS per fare pressione su questi organismi.

«Continueremo a fare delle nostre vite poesie, fino a quando libertà non verrà declamata sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi.»

Vittorio Arrigoni

(*Palestina Open Maps è un progetto che permette la possibilità a tutti di poter esaminare, e condividere le mappe che descrivono confini geografici che non esistono più, città e villaggi, strade e collegamenti che l’entità sionista ha cancellato. https://palopenmaps.org/view)

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