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I LAVORATORI AUTONOMI E LA NECESSARIA RIFORMA DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI

Sugli ammortizzatori sociali per il lavoro autonomo si sta giocando, a livello della politica nazionale, una partita che non si esita a definire fondamentale.

L’emergenza coronavirus ha rivelato quanto i lavoratori autonomi siano, nella società del mercato e della concorrenza, abbandonati a se stessi e alle alterne vicende della vita. Per il settore delle libere professioni la crisi si sostanzia in una vertiginosa diminuzione degli introiti, a fronte di spese di esercizio della professione invariate.

E’ certamente caduto un velo di Maja: la proletarizzazione dei cosiddetti “professionisti” è un dato acclarato. Smentita la vulgata novecentesca, che vedeva architetti, avvocati, ingegneri, giornalisti tutti appartenenti ad un ceto privilegiato e benestante, emerge prepotentemente una realtà fatta di lavoratori a partita IVA che possono contare solo su se stessi. Coloro che già prima della pandemia potevano contare solo su redditi bassi o bassissimi sono ad un bivio drammatico: da un lato la prosecuzione della professione, dall’altro l’uscita forzata dal circuito lavorativo per passare nel limbo della disoccupazione, e quindi della povertà per sé e per le proprie famiglie.

Se già dalla crisi del 2008 la situazione reddituale delle libere professioni aveva imboccato un china a tutti evidente, gli eventi del 2020 hanno reso ineludibile un cambio di visione: è chiaro che non valgono più gli schemi del secolo trascorso, nei quali il professionista era per definizione soggetto autosufficiente perché abbiente. Oggi il lavoro professionale, investito con violenza dalla pandemia, appare per larga parte povero o al limite della sussistenza. Per gli avvocati così come per gli altri lavoratori iscritti agli Ordini non esistono ancora concreti ammortizzatori sociali che possano sostenerli in questo mutamento generale dell’economia: laddove non intervenga qualche forma di welfare familiare, sono decine di migliaia i lavoratori autonomi che stanno entrando senza mezzi termini nel vortice della povertà. Le casse di previdenza private non sono pronte ad apprestare alcuna provvidenza per casi del genere, al di là della tradizionale assistenza fatta di bandi per situazioni specifiche cui non tutti possono accedere.

La politica nazionale sta prendendo pian piano coscienza di questo rivolgimento epocale.

Sul punto, si fronteggiano due diversi tipi di soluzione: da un lato, il disegno di legge predisposto dal CNEL e approvato durante il governo Conte bis; dall’altro, una bozza predisposta dalla Commissione di studio per la riforma degli ammortizzatori sociali istituita presso il Ministero del Lavoro con il dicastero Catalfo, di cui si dovrà tornare a parlare con Andrea Orlando.

La legge CNEL ha istituito un’indennità legata al calo del reddito (ISCRO), da erogarsi dall’INPS solo ai professionisti lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata, con esclusione degli iscritti alle Casse di previdenza private. Si tratta di un primo punto critico della legge, che lascia fuori dagli ammortizzatori il segmento più ampio del lavoro autonomo, quello ordinistico: si pensi che gli iscritti alla Gestione Separata dell’INPS a fine 2018 erano solo 627.227 (fonte INPS), mentre nello stesso anno gli iscritti alle Casse dei professionisti erano più del doppio: 1.649.263 (fonte ADEPP).

Il secondo punto dolente della proposta CNEL è che l’indennità verrà finanziata con un aumento della contribuzione previdenziale fisso a carico degli stessi lavoratori. L’aliquota INPS subirebbe un aumento dello 0,28 uguale per tutti i lavoratori iscritti, quale che sia il loro reddito: con ciò gravando in misura esponenziale sui lavoratori a redditi bassi (proprio quelli che si intenderebbe aiutare) senza alcun meccanismo redistributivo a carico dei lavoratori affluenti.

Il vulnus essenziale di questa proposta di legge in ogni caso sta nell’esclusione senza mezzi termini dal meccanismo dei lavoratori iscritti agli ordini: come se la crisi non avesse colpito anche quelle categorie, come se non si trattasse di categorie per buona parte al limite della sopravvivenza. Scelta parziale e insensata dunque quella del CNEL, di Confprofessioni, Confassociazioni e delle forze politiche (in primo luogo il PD) che hanno sostenuto questa soluzione.

La ex ministra del Lavoro Catalfo, invece, ci aveva visto meglio.

La proposta proveniente dalla commissione di studio da lei fortemente voluta (nonostante parecchi malumori raccolti anche nel suo partito, il Movimento 5 Stelle) si è rivelata in questo senso molto più interessante: ma purtroppo la crisi di governo, con il cambio al vertice ministeriale e con l’avvento del piddino Orlando, ha smantellato la commissione e bloccato l’interessante progetto di riforma universale degli ammortizzatori sociali da essa concepito.

Per tutti i lavoratori autonomi – senza distinzione fra iscritti alla Gestione separata INPS e iscritti alle casse di previdenza private – si proponeva il riconoscimento di un’indennità in caso di riduzione del fatturato o di cessazione dell’attività, alimentata con una contribuzione basata su aliquote finalmente progressive (e quindi gravanti maggiormente sui lavoratori più affluenti) in relazione al reddito professionale conseguito nel triennio precedente. L’erogazione delle provvidenze non sarebbe stata poi subordinata a nessuna condizionalità formativa (come invece accade paternalisticamente nel caso dell’ISCRO) e sarebbero stati esonerati dalla contribuzione i professionisti in regime fiscale forfettario. Inoltre, al fine di riservare il beneficio alle fasce economiche più deboli, si prevedeva l’esclusione da esso per i professionisti con reddito superiore a 35.000 euro, con l’applicazione altresì di un tetto ISEE, per evitare erogazioni a soggetti deboli nel reddito personale ma forti di situazioni familiari benestanti o talvolta addirittura ricche.

Oggi, una riforma degli ammortizzatori sociali anche per i lavoratori autonomi non è più rinviabile. Ne è probabilmente consapevole Andrea Orlando, che per il mese di giugno ha programmato una serie di incontri con le rappresentanze dei lavori professionali e più in generale a partita IVA

Il lavoro della Commissione Catalfo va ripreso e valorizzato perché è portatore di una novità di fondo; ossia della consapevolezza sociale e politica che la partita IVA troppo spesso è luogo di precariato economico ed esistenziale.

Un passaggio è essenziale: se, come già di mormora, è escluso che sia lo Stato a finanziare il nuovo welfare dei lavoratori autonomi, è fondamentale che l’aumento della contribuzione previdenziale preveda una sostanziosa no tax area per gli autonomi a reddito basso e medio basso; e che l’incremento dei contributi che i lavoratori a redditi superiori ad una certa soglia dovranno subire rispetti un criterio di stretta progressività: di modo che chi più ha più versi, in un’ottica redistributiva a cui non ci si può più sottrarre. Se la pandemia infatti ha reso evidenti e ancora più profonde le diseguaglianze economiche e sociali che già esistevano, ha però anche un merito: quello di aver insinuato anche nelle forze politiche più resistenti il dubbio che un nuovo, definitivo tracollo sociale (con conseguenze forse ancora oggi non immaginabili) può essere evitato soltanto applicando un principio solidaristico stretto, prelevando – almeno in minima parte – la ricchezza dai pochi che la detengono, per garantire – almeno in modo embrionale – masse di lavoratori sino ad oggi dimenticati.

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