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Ambientalismo: responsabilità individuale o strutturale?

Passeggiando per Roma in questi giorni, mi è capitato di imbattermi in situazioni a dir poco raccapriccianti sia per la vista che per l’olfatto. Chi è romano capirà subito a cosa mi riferisco: le montagne di spazzatura che invadono strade e marciapiedi hanno un che di mitologico e straziante, simboli di una storia che si ripete e grida la sua passiva presenza con uno spiccato tono di rassegnazione. D’altronde è lo stesso sentimento che prova l’abitante medio giunto fino al cassonetto con la sua immondizia e che, di fronte al contenitore strabordante, non ha alcuna intenzione di riportarsi il suo sacchetto infimo a casa o in macchina e decide quindi di abbandonarlo lì vicino, sopra, ad altri sacchetti abbandonati.

Più volte di fronte a queste visioni mi sono domandata fino a che punto il cittadino possa essere colpevole di tale scempio e in quanti modi, invece, influisca la mancanza di un’organizzazione coordinata ed efficiente che garantisca un servizio inderogabile a fronte delle tasse che ognuno di noi versa allo stato.

L’amministrazione capitolina è infatti a rischio commissariamento, la diffida è stata firmata persino da due consigliere pentastellate. La regione Lazio, il 30 aprile, ha inviato alla sindaca Raggi un ultimatum di 60 giorni per trovare una soluzione all’accumulo di rifiuti, destinato inevitabilmente ad aumentare con le riaperture e ad assumere olezzi nauseabondi con le temperature estive. Dopo la chiusura della discarica di Malagrotta e l’incendio che nel 2018 ha devastato il TMB Salario, la chiusura della discarica di Roccasecca in provincia di Frosinone, avevano spinto la regione Lazio a stringere accordi con Abruzzo prima, Emilia Romagna e Toscana poi, per trasportare parte dei rifiuti romani nei loro impianti. Ma anche questa soluzione sta per giungere al termine, entro la fine di giugno i rifiuti non potranno più essere trasportati fuori dalla regione.

Quello di cui Roma avrebbe bisogno sono nuovi e più moderni impianti da aggiungere ai cinque totali di cui dispone attualmente ovvero, uno per il compostaggio, due per la raccolta differenziata e due per quella indifferenziata. Le fasi su cui AMA è più carente, infatti, sono il trattamento e lo smaltimento. Ma anche incrementare il ritiro porta a porta potrebbe incoraggiare la buona prassi della raccolta differenziata, che per molti sembra ancora un’opzione remota ma che, gestita a livello condominiale, incentiverebbe la responsabilità individuale. Una delle colpe addossate ai cittadini infatti è l’incapacità di differenziare i rifiuti e sostanzialmente di fregarsene di dove gettare vetro, carta, plastica, organico, ma anche qui la questione potrebbe infittirsi: per quale motivo ognuno di noi è portato a generare questa quantità di rifiuti? Chi è che sceglie in che modo è incartato ciò che acquistiamo, quali materiali utilizzare per gli imballaggi e gli oggetti in generale? In che modo siamo incentivati ad acquistare un certo tipo di prodotto piuttosto che un altro?

Viviamo in un’epoca in cui il consumismo è incoraggiato a livelli altissimi, i più alti conosciuti fino ad ora almeno, dove l’approccio ai beni materiali è quello del desiderio primordiale. Cartoni, contenitori, bottiglie di plastica, imballaggi vari, montagne di cibo avariato o avanzato e perché no? Anche qualche rifiuto speciale che non si sa mai bene dove gettare.

Quando mi è capitato di confrontarmi con amici o colleghi sulle nostre abitudini di consumo, in alcune occasioni mi sono sentita rispondere che certe scelte possiamo farle, per ridurre i rifiuti e per prenderci cura del nostro ambiente in generale. Esistono i detersivi alla spina, ad esempio, la frutta e la verdura non confezionate come al supermercato, slip assorbenti lavabili, oppure, viaggiare il meno possibile in aereo, non usare l’automobile…

Ad ognuno di questi buoni propositi sarei in grado di trovare una risposta alternativa, e non perché io sia contraria a queste abitudini, anzi, ma perché ritengo che siano ancora un lusso che pochi hanno la possibilità di permettersi. Per portare avanti la propria vita secondo questi comportamenti, una persona dovrebbe avere a disposizione giornate libere, uno stipendio alto, una casa grande e ben collegata con le attività commerciali e servizi. Ma in ogni caso per tutto quello che produrremmo, anche se in quantità minore, dovrà esserci sempre un cassonetto pronto a riceverlo, e dietro di lui un servizio di raccolta efficiente che lo porterà a una discarica funzionante e ben organizzata. Insomma queste montagne di rifiuti esisterebbero comunque, probabilmente.

Il paragone con l’attuale situazione ambientale, rispetto alle responsabilità individuali, è immediato, l’aumento delle temperature globali provocate prevalentemente dal CO2 è una notizia ormai costante nelle nostre cronache e da un paio di decenni sentiamo ripeterci quanto sia importante regolare le nostre abitudini per rallentarne l’innalzamento. La comunicazione per il sociale così come le campagne pubblicitarie, stimolano a una riflessione e rafforzano il senso di responsabilità proveniente riguardante, ad esempio il chiudere il rubinetto mentre si lavano i denti, scegliere di fare una doccia anziché un bagno, separare i vari pezzi di un packaging per le varie sezioni di raccolta differenziata. Quando è arrivata la pandemia, oltre l’incredibile aumento produttivo di rifiuti non riciclabili quali mascherine e guanti, una delle poche positive conseguenze era stata proprio la diminuzione di certi livelli di inquinamento, l’aria risultava più respirabile e le percentuali di emissioni si erano drasticamente ridotte, grazie all’impossibilità di spostamenti in automobile e al fermo dei voli.

D’improvviso tutto ci è sembrato più facile e quegli obiettivi sempre percepiti così lontani, tutt’a un tratto erano dietro l’angolo. Il 19 maggio 2020 sul Nature Climate Change è stato pubblicato un report realizzato da 13 esperti che analizzava la quantità di riduzione globale nei primissimi mesi del lockdown e il possibile risultato annuale che questa variazione poteva raggiungere. I dati sono stati raccolti ad inizio pandemia e prendono come riferimento la data 7 aprile 2020, come giornata in cui, rispetto allo stesso giorno del 2019, si è emessa la quantità minore di anidride carbonica. I risultati sono stati modulati poi secondo i sei settori economici che più hanno subito blocchi o restrizioni e l’esito mostra come le diminuzioni d’impatto più significative per l’emissione del gas serra si siano riscontrate nell’aviazione (con una variazione fino al 75% in meno), nei trasporti di superficie (-50%) e nell’industria (-35%), a seguire le attività commerciali e i servizi pubblici (-32,5%), l’energia elettrica (-15%) mentre invece l’unico settore che ha subito un aumento (+5%) è stato quello residenziale abitativo, risultato chiaramente della permanenza in casa dovuta alla quarantena. Queste percentuali, confrontate con i dati di rilevamento sul resto dell’anno, danno come media un totale del 17% in meno rispetto al 2019. Secondo il grafico questo valore corrisponde, circa, alle emissioni del 2006. Ma eravamo a maggio e in seguito alle riaperture estive il dato è tornato a crescere, portando comunque un risultato annuale del 7% in meno.

Per questo, lo scorso anno, molti media, nazionali e non, hanno riportato la notizia come una sorta di vittoria nella corsa al ribasso alla diminuzione dei gas serra, come se quel 7% in meno annuale potesse divenire una costante e portarci molto vicini agli obiettivi previsti dalla COP (Conferenza ONU sui cambiamenti climatici) e cioè limitare l’aumento di temperatura a 1,5° in più rispetto ai livelli preindustriali entro il 2030 e portare a zero le emissioni entro il 2050.

Il concetto però che Nature Climate Change sottolinea è la temporaneità di questo calo e la debolezza che questo risultato rappresenta rispetto all’emergenza attuale: non bastano 12 mesi e un 7% di CO2 ad arrestare l’aumento delle temperature. Questo non è un risultato a lungo termine e non potrà mai compensare oltre due secoli di emissioni costanti.

C’è inoltre da notare come il calo significativo riguardi l’aviazione e i trasporti di superficie e solo al terzo posto l’industria e al quinto l’energia elettrica. Ciò è indice di come l’esito sia dipeso soprattutto dalle responsabilità individuali di tutti noi e dalla quarantena e non piuttosto dalle scelte strutturali di quei settori che, di fatto, emettono le percentuali più alte di CO2: l’energia elettrica (che copre il 44,3% delle emissioni totali), l’industria (22,4%), i trasporti di superficie (20,6%), le attività commerciali e i servizi pubblici (4,2%), le abitazioni (5,6%) e l’aviazione (2,8%). Il confronto dimostra che la responsabilità sociale da sola non riuscirà a portare a zero le emissioni. Il 7% in meno è un risultato che non riflette cambiamenti strutturali nell’economia, nei trasporti e nella produzione di energia: chi detiene il peso decisivo per il raggiungimento dei risultati, non ha ancora compiuto nessuna scelta verso il cambiamento e la riconversione.

Questo, ovviamente, non significa che da cittadini non possiamo fare la differenza. Come riporta un’analisi della giornalista Annie Lowrey, I’m cutting my emissions, and the people around me are cutting their emissions, ma, come dovrebbe comunicarci anche il nostro innato buonsenso, il nostro minuscolo contributo, come la rinuncia all’automobile, ai viaggi aerei, al consumo eccessivo di carne, se messo in atto da tutti o dalla maggioranza, infatti non tutti hanno le stesse possibilità, potrà finalmente renderci un senso della collettività. Non solo; ci permetterebbe di risparmiare fino a 4 tonnellate di emissioni di CO2 all’anno (un dato allo stato di fatto decisamente insignificante visto che la produzione annua globale è di 33 miliardi di tonnellate), ma nel lungo termine stimolerebbe l’emulazione da parte di altri cittadini nelle scelte di consumo, portando al cambiamento sociale di cui abbiamo bisogno. La legge di mercato, infatti, si adegua alle nostre scelte e l’azione collettiva è fondamentale per il raggiungimento di tali obiettivi.

Dall’altro lato, quando sentiamo parlare di responsabilità ambientale, le istituzioni dovrebbero dettare legge e porre le basi affinché i cittadini siano in grado di assumere comportamenti quotidiani idonei e rispettosi e incentivare le industrie ad abolire la plastica negli imballaggi, produrre oggetti o strumenti più resistenti in modo che non si debbano gettare ogni anno, agevolare fiscalmente chi sceglie di adeguare la propria abitazione alle norme ecologiche per ridurre le emissioni, strutturare un sistema di raccolta e riciclaggio dei rifiuti davvero progettata per favorire la produzione di energie alternative. Come individui consapevoli, abbiamo la possibilità di scegliere le nostre abitudini e di indirizzarle alla salvaguardia di questo pianeta e soprattutto al mantenimento della sua bellezza per le generazioni future. Per questo i movimenti come Fridays For Future, il movimento ambientalista coordinato da giovani ragazzi che si ribellano di fronte all’inquietante immagine di un catastrofico futuro, andrebbero sostenuti. Mantenere alta l’attenzione sui problemi climatici e ambientali dovrebbe essere il nostro primo interesse per la sopravvivenza e per ciò che lasceremo a chi verrà dopo di noi. Il futuro è di tutti d’altronde.

Fortunatamente alcuni processi evolutivi di miglioramento sono già in atto, ma ci vorranno anni, decenni, prima di vedere un sostanziale cambiamento ambientale e nel rapporto dell’umanità con la Terra che ci ospita. Quando realmente ci percepiremo come parte integrante della natura e non come esseri superiori che hanno il diritto di governarla e modificarla, allora potremo dire di essere davvero degli abitanti del pianeta e non dei parassiti, allora saremo davvero esseri superiori ed evoluti. Ciò che mi auguro è che un giorno i traguardi scientifici e tecnologici possano portarci al nostro unico vero obiettivo: il rispetto del nostro pianeta e il valore intrinseco della nostra vita.

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