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Mariátegui

Né calco, né copia: grandezza e originalità del marxismo di José Carlos Mariátegui (Seconda Parte)

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Emerge qui un possibile confronto tra la riflessione di Trockij sulla “rivoluzione permanente” e il pensiero di Mariátegui1. Nel suo celebre volume Storia della rivoluzione russa Trockij spiega che la borghesia russa, così come quella dei paesi sottosviluppati, non nasce, come accaduto in Occidente, attraverso un lungo processo secolare staccandosi dalle corporazioni urbane medievali. I capitali che costruiscono l’industria russa sono in larga parte capitali stranieri, che saltando tutta una serie di fasi intermedie trapiantano in un paese arretrato la grande industria nelle sue forme più moderne. Si crea una alleanza tra questo capitale, lo Stato zarista, le banche e la nobiltà terriera che si trova sempre più strettamente legata alla borghesia. Al tempo stesso si forma un proletariato che rapidamente si trova ad occupare un posto decisivo nell’economia e nella società. Lo sviluppo del capitalismo assume quindi un carattere diseguale e combinato. Scrive Trockij:

«Un paese arretrato assimila le conquiste materiali e intellettuali dei paesi avanzati. Ma ciò non significa che li segua servilmente, ripercorrendo le fasi del loro passato. La teoria del ripetersi dei cicli storici – propria del Vico e dei suoi discepoli – si basa sull’osservazione dei cicli compiuti dalle vecchie culture precapitalistiche e in parte sulle prime esperienze dello sviluppo capitalistico. Il carattere provinciale ed episodico di tutto questo processo comportava effettivamente un certo ripetersi delle fasi culturali in centri sempre nuovi. Ma il capitalismo segna il superamento di tali condizioni. Esso ha preparato e, in un certo senso, realizzato l’universalità e la continuità del progresso umano. Di conseguenza, resta esclusa la possibilità di un ripetersi delle forme di sviluppo da parte di paesi diversi. Costretto a mettersi a rimorchio dei paesi avanzati, un paese arretrato non segue lo stesso ordine di successione: il privilegio di una situazione storicamente arretrata – poiché esiste tale privilegio – autorizza o, più esattamente, costringe un popolo ad assimilare tutto quello che è stato fatto prima di una determinata data, saltando una serie di fasi intermedie. I selvaggi rinunciano all’arco e alle frecce per prendere immediatamente il fucile, senza ripercorrere la distanza che nel passato ha separato queste due armi. Gli europei che colonizzavano l’America, non riprendevano la storia dall’inizio»2.

Dall’analisi di Trockij si evince come lo sviluppo del capitalismo nei paesi arretrati, come la Russia, non può passare attraverso le tappe dello sviluppo che hanno conosciuto i primi paesi capitalisti come l’Inghilterra, la Francia o gli Stati Uniti. Questo perché il paese in ritardo deve concentrare in un breve lasso di tempo un certo numeri di fasi combinandole con le proprie caratteristiche interne. Tuttavia il ritardo può essere uno stimolo per lo sviluppo, talvolta così forte da consentire all’economia ritardataria di scavalcare diverse fasi, oppure divenire un impedimento spesso così grave da condannare il paese ritardatario ad un perpetuo spreco delle sue già scarsissime risorse in un inseguimento senza speranza e senza significato. Scrive ancora Trockij:

«Lo sviluppo di un paese storicamente arretrato porta necessariamente a una combinazione originale delle diverse fasi del processo storico. L’orbita acquista, nel suo insieme, un carattere irregolare, complesso, combinato. La possibilità di saltare le fasi intermedie, va da sé, non è affatto assoluta: in ultima analisi, è limitata dalle capacità economiche e culturali del paese. […] La legge razionale della storia non ha nulla a che vedere con schemi pedanteschi. L’ineguaglianza dello sviluppo, che è la legge più generale del processo storico, si manifesta con maggior vigore e complessità nelle sorti dei paesi arretrati. Sotto la sferza delle necessità esterne, lo loro cultura in ritardo è costretta ad avanzare a salti. Da questa legge universale della ineguaglianza deriva un’altra legge che, in mancanza di una denominazione più appropriata, può essere definita legge dello sviluppo combinato e vuole indicare l’accostarsi di diverse fasi, il combinarsi di diversi stadi, il mescolarsi di forme arcaiche con le forme più moderne»3.

Ne consegue che la borghesia nei paesi sottosviluppati non può porsi alla guida e neppure accettare di partecipare ad un movimento rivoluzionario. Al contrario, deve aggrapparsi all’apparato statale (unico baluardo possibile della sua proprietà), alla proprietà terriera (poiché la riforma agraria significherebbe la contemporanea rovina delle banche verso le quali i latifondisti sono sempre più pesantemente indebitati). In altre parole, a differenza delle borghesie dell’Europa occidentale, che in modo più o meno deciso assecondarono o addirittura guidarono i movimenti rivoluzionari dei secoli XVII e XVIII, essa non ha, sul piano storico, alcun ruolo progressista da giocare, essa è in tutto e per tutto una forza controrivoluzionaria, dietro la quale si schiera il capitale internazionale. Lo sviluppo dell’industria ha tuttavia creato un proletariato che sia pure numericamente esiguo, è molto combattivo.

Quest’ultimo deve prendere il posto che nella rivoluzione francese era stato dei sanculotti parigini, ossia quello di punta avanzata e massa d’urto della rivoluzione. La classe operaia, grazie alla sua concentrazione nelle città e nelle grandi fabbriche, può raggiungere rapidamente un alto grado di omogeneità politica e porsi alla guida della rivoluzione, fornendo alle sterminate masse di contadini poveri che lottano per la terra un punto di riferimento e una guida. Tutta la storia dei secoli precedenti dimostra infatti come la classe contadina, dispersa sul territorio ed eterogenea per condizioni sociali, è sì capace di grandi rivolte, tuttavia, inevitabilmente queste non portano al potere un partito contadino, ma un partito rivoluzionario delle città. Se ciò non avviene, la rivolta contadina viene divisa e schiacciata dal potere centrale. Nella misura in cui il proletariato porta avanti i compiti della rivoluzione borghese per consolidare quelle conquiste deve avanzare anche i compiti della rivoluzione proletaria, dando così un carattere ininterrotto o permanente al processo rivoluzionario4.

Nella visione di Mariátegui «il socialismo deve tradursi nelle circostanze particolari in cui si trova a pensare e ad agire per rispondere alle esigenze di riscatto nazionale del popolo peruviano (e, in generale, dei popoli latinoamericani, compresi i cosiddetti “indigeni”) dalla subalternità rispetto alle oligarchie locali, ridotte ad agenti subordinati dell’imperialismo. Tale percorso di riscatto non può rintracciarsi in modelli teorici precostituiti, che verranno imposti ai vertici dei partiti comunisti nazionali dalla linea di pensiero della III Internazionale»5. Egli sostiene: «non vogliamo, certamente, che il socialismo sia in America calco e copia. Deve essere creazione eroica. Dobbiamo dar vita, con la nostra propria realtà, nel nostro proprio linguaggio, al socialismo indoamericano»6.

Il problema di “tradurre” nazionalmente i principi del materialismo storico, ossia rigettare le affermazioni superficiali sul capitalismo e la rivoluzione in generale, per costruire una nuova teoria della trasformazione a partire dalle concrete condizioni di ciascuna formazione economico sociale, si trova ancheal centro della riflessione teorica di Antonio Gramsci durante il periodo carcerario.

Secondo il pensatore sardo l’incapacità di dare contenuto nazionale ai valori universali (scaturiti dalle condizioni eminentemente nazionali), della Rivoluzione d’Ottobre èstata la causa del fallimento dei tentativi rivoluzionari in Occidente, nonostante una profonda crisi economica e di egemonia delle classi dirigenti, e in un contesto oggettivamente rivoluzionario7. Attraverso lo sviluppo delle forze produttive e l’evoluzione della società in senso democratico e burocratico, secondo Gramsci, si ampliavano e divenivano sempre più sofisticati i sistemi dell’apparato egemonico e di dominio.

«In Oriente – scrive Gramsci in un celebre passo dei Quaderni – lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale»8.

Si può perciò dire che tanto Gramsci quanto Mariátegui, sia pure da una prospettiva differente, giungano a negare, insieme ad una strategia universalmente valida, anche un modello universale di rivoluzione, affermando l’originalità dei processi rivoluzionari nazionali.

Anche la riflessione di Mariátegui, in maniera non dissimile da quella del pensatore sardo9, ponendosi in netto contrasto con il materialismo meccanicistico del Diamat, attirò su di sé le critiche dei custodi dell’ortodossia stalinista. In un celebre articolo del 1941, V.M. Miroševskij, eminente specialista sovietico e consigliere del Buró latino americano del Komintern, denunciava il “populismo” e il “romanticismo” di Mariátegui. Per l’accademico sovietico era sufficiente accusare Mariátegui di un tale peccato mortale per dimostrare in modo definitivo e irrefutabile come il suo pensiero fosse estraneo al marxismo. Quale esempio di tale “romanticismo nazionalista”, Miroševskij menzionava le tesi di Mariátegui sull’importanza del collettivismo agrario degli inca nella lotta socialista moderna in Perù10.

In realtà il romanticismo, ossia la protesta culturale contro la civilizzazione capitalista moderna in nome di valori o immagini del passato precapitalista – una visione del mondo complessa ed eterogenea che si sviluppa da Jean-Jacques Rousseau fino ai nostri giorni – è presente nel pensiero di Marx e nelle opere di autori marxisti importanti11. Nella sua lettera alla populista russa Vera Zasulič del 1881, per esempio, Marx insisteva sul ruolo delle comunità rurali tradizionali – l’obščina – per il futuro del socialismo in Russia. Secondo lui, l’abolizione rivoluzionaria dello zarismo e del capitalismo avrebbe permesso alla società moderna di tornare (Rückkehr) alla proprietà comune «arcaica» o, più precisamente, «a una rinascita della società arcaica in forma superiore». Una rinascita, perciò che integra tutte le conquiste della civilizzazione europea12.

In seguito alla morte di Marx ed Engels, si affermarono due correnti opposte all’interno del marxismo: una “fredda”, puramente razionale, analitica, impietosa, scientifica, obiettiva, che coglie l’essenza del capitalismo, il suo funzionamento come sistema  e le sue contraddizioni – Plechanov, Kautsky e i loro seguaci della II e della III internazionale; e una “calda” basata invece sul principio della speranza, dell’utopia (nel suo senso etimologico “qualcosa che non esiste da nessuna parte”), della rigenerazione del mondo: per esempio in Inghilterra, da William Morris ai marxisti inglesi della seconda metà del XX secolo (E.P. Thompson, Raymond Williams) e in Germania, con autori come Ernst Bloch, Walter Benjamin o Herbert Marcuse. Queste due dimensioni sono ugualmente necessarie e complementari. Esiste tra le due una tensione, ma si tratta di una tensione positiva e dialettica, che il marxismo deve continuamente tenere sotto controllo per non cadere nello scientismo positivista o nel romanticismo sentimentale.

José Carlos Mariátegui appartiene a questa seconda corrente in modo originale e in un contesto latinoamericano molto diverso dall’Inghilterra o dall’Europa centrale. Durante il suo soggiorno in Europa, Mariátegui assimilò simultaneamente il marxismo e alcuni aspetti della Lebensphilosophie (Filosofia della vita) dell’epoca: Proudhon, Renan, Nietzsche, James, Bergson, Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, Sorel, il surrealismo.

Il pensatore peruviano cercava in queste filosofie ciò che nel marxismo più grossolano, scientistico e meccanicistico, non poteva ritrovare: il riconoscimento del ruolo dell’azione, del soggetto, spinto dalla sua volontà di trasformazione. Ciò non significa che egli si trasformasse – come gli imputano i suoi avversari – in un portabandiera dell’irrazionalismo e del soggettivismo. Mariátegui critica – con Sorel – le «illusioni del progresso», cioè il progressismo della modernità borghese, e combatte ugualmente le illusioni del riformismo rispetto a una trasformazione sociale inevitabile o fatale in virtù del fatto che la scienza così stabilisca.

La visione del mondo romantico-rivoluzionaria di Mariátegui, com’è fondata nel suo saggio del 1925 Dos concepciones de la vida, si oppone a ciò che chiama «filosofia evoluzionista, storicista, razionalista» con il suo «culto superstizioso del progresso», auspicando un ritorno allo spirito d’avventura, ai miti storici, al romanticismo e al quijotismo (termine che mutuò da Miguel de Unamuno). Per legittimare questa opzione, si rifà a pensatori socialisti come Georges Sorel, che rifiutano l’illusione del progresso. Due correnti romantiche, che respingono la filosofia «povera e comoda» dell’evoluzionismo positivista, si affrontano in una lotta mortale: il romanticismo di destra, fascista, che vuole tornare al Medioevo, e il romanticismo di sinistra che vuole arrivare all’utopia. Le «energie romantiche dell’uomo occidentale», risvegliate dalla guerra, trovarono espressione nella Rivoluzione russa che riuscì a dare «un’anima guerriera e mistica»13 alla dottrina socialista.

In un altro articolo «pragmatico» dello stesso periodo, El hombre y el mito, Mariátegui si rallegra per la crisi del razionalismo e la sconfitta della «mediocre costruzione positivista». Di fronte all’«anima disincarnata» della civiltà borghese, di cui parla Ortega y Gasset, si identifica con l’«anima incantata» (Romain Rolland) dei creatori di una nuova civiltà. Il mito, in senso soreliano, è la sua risposta al disincanto del mondo – caratteristica della civiltà moderna, secondo Max Weber – e alla perdita di senso della vita. Ed è qui che incontriamo nel rivoluzionario peruviano affermazioni che non smettono di sorprendere come la seguente:

«L’intellighenzia borghese si gingilla con la critica razionalista del metodo, della teoria, della tecnica dei rivoluzionari. Che mancanza di comprensione! La forza dei rivoluzionari non sta nella loro scienza; è nella loro fede, nella passione, nella volontà. È una forza religiosa, mistica, spirituale. È la forza del Mito. L’emozione rivoluzionaria, come scrissi in un articolo a proposito di Gandhi, è un’emozione religiosa. I motivi religiosi si sono spostati dal cielo alla terra. Non sono divini, ma umani, sociali»14.

Questo è il marxismo di Mariátegui: un marxismo in cui il sorelismo cerca di essere compatibile con il leninismo, dato che egli, come Lenin (e come Gramsci), sottolinea l’importanza del fattore soggettivo, la capacità dei rivoluzionari guidati da un partito di trasformare la realtà, pur senza sottoscrivere in modo chiaro ed esplicito – data la sua opposizione a ogni scientismo – la tesi leninista dell’introduzione nella classe operaia della coscienza socialista, rivoluzionaria, dall’esterno, dato il carattere scientifico che le attribuisce Lenin.

Come esempio dell’opposizione tra marxismo autentico dei bolscevichi e il meccanicismo positivista della socialdemocrazia, Mariátegui scrive in un passo essenziale di Defensa del marxismo (1930), uno dei più importanti contributi al dibattito marxista offerto dal mondo latinoamericano:

«Si attribuisce a Lenin una frase esaltata da Unamuno nella sua Agonia del cristianesimo, l’ha pronunciata una volta, contraddicendo qualcuno che gli faceva notare che il suo sforzo andava contro la realtà: “Tanto peggio per la realtà! Quando il marxismo si è mostrato rivoluzionario – cioè quando è stato marxista – non ha mai ubbidito a un determinismo passivo e rigido”»15.

Esiste una sorprendente analogia fra questa enunciazione e quella che ritroviamo in un articolo del giovane Lukács, pubblicato nel 1919 (che Mariátegui certamente non conosceva): nella visione del filosofo ungherese Lenin, durante i negoziati di Brest-Litovsk, si preoccupò ben poco per i cosiddetti “fatti”. Se i “fatti” si opponevano al processo rivoluzionario, i bolscevichi rispondevano, con Fichte: «Tanto peggio per i fatti»16. Tuttavia il Lenin “donchisciottesco” di Mariátegui – o “fichtiano” del giovane Lukács – è una creazione puramente immaginaria. La concezione materialistica della storia insegna infatti che gli individui non sono assolutamente liberi, ma sono costretti ad agire secondo condizioni che esulano dalla propria volontà individuale.

Contrariamente all’opinione di Lukács e Mariátegui infatti, le circostanze oggettive all’interno delle quali è stata stipulata la pace di Brest-Litovsk, sono state tutt’altro che libere, ma obbligate da condizioni esterne che esulavano dalla volontà del leader bolscevico. Per ricordare una metafora di Lenin: tentando di raddrizzare il bastone che era storto verso destra (a opera del positivismo), i due pensatori finirono con il piegarlo eccessivamente verso sinistra (cadendo nell’idealismo).17 

Il comunismo storico novecentesco, sia in Europa che in America Latina, seguì la strada del rigido determinismo staliniano. Sarà forse ora, all’inizio del XXI secolo, che il marxismo potrà finalmente richiamarsi a quella concezione “eroica” del socialismo, “né calco, né copia” del modello sovietico, di cui Mariátegui fu portavoce?

1L’argomento del rapporto fra è Mariátegui e Trockij è abbastanza complesso. Secondo Michael Löwy il pensatore peruviano «aveva simpatia per la figura di Trockij, ma conservò sempre una posizione indipendente nei confronti del conflitto tra sostenitori e avversari di Stalin all’interno del movimento comunista; il suo concetto di rivoluzione socialista latinoamericana non coincideva con l’ortodossia del Komintern, cosa per la quale venne criticato dai suoi portavoce in America Latina, tra cui Victorio Codovilla», (cfr. M. Löwy, Il marxismo romantico di José Carlos Mariátegui, in L’altro novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Vol. IV, Jaca Book, Milano, 2016, pp. 385-386. L’affermazione di Löwy è smentita dalla pubblicazione, il 23 febbraio del 1929, di un articolo di Mariátegui dal titolo El exilio de Trotzky. Esso riprendeva tre paragrafi di Trotsky y la oposición comunista del febbraio 1928, cui ne aggiungeva cinque nuovi. «L’opinione trockista – scriveva Mariátegui – ha una funzione utile nella politica sovietica. Rappresenta, se si vuole definirla in due parole, l’ortodossia marxista, di fronte al fluire travolgente e indocile della realtà russa». L’apprezzamento per Trockij era posto fuori discussione. La funzione critica trockista era anche sottolineata come una necessità contro la tendenza centralista, autoritaria e burocratica, (cfr. J.C. Mariátegui, El exilio de Trotzky, in Id., Figuras y aspectos de la vida mundial, III, Biblioteca “Amauta”, Lima, 1986, pp. 27-31; in MT, I, cit., pp. 1205-1207).

2L. Trockij, Storia della rivoluzione russa, Sugar Editore, Milano, 1964, pp. 38-39. Analizzando i rapporti di produzione che contraddistinguono la società peruviana, Mariátegui nota: «Nel Perú di oggi coesistono elementi di tre economie diverse. Nelle Ande vige la struttura economica feudale nata dalla Conquista in cui ancora sussistono forme concrete dell’economia comunista indigena. Sulla costa, su un terreno feudale, cresce un’economia borghese che – almeno nel suo sviluppo intellettuale – sembra essere un’economia arretrata», (J.C. Mariátegui, Sette saggi, cit. p. 57).

3Ibidem.

4L. Trockij, La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino, 1966.

5 Denisio Iera, Il marxismo «né calco, né copia» di José Carlos Mariátegui, cit., p. 4.

6J.C. Mariátegui, Ideología y política, cit, p. 249.

7G. Fresu, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Aipsa Edizioni, Cagliari, 2019, pp. 330 – 331.

8A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino, 1975. Si è spesso accennato, soprattutto nella storiografia più recente, alle profonde somiglianze tra la personalità di José Carlos Mariátegui e quella di Antonio Gramsci. Manca tuttavia uno studio organico e documentato sui rapporti diretti e sulleinfluenze reciproche tra i due grandi pensatori marxisti. Il dato positivo che colpisce a tal proposito è la coincidenza nel rifiuto di ogni riduzione positivistica o sociologistica del marxismo, che si esprime nella polemica, comune ai due autori.

9 In una lettera del 25 aprile 1941 Palmiro Togliatti avvertiva il leader del Comintern Dimitrov, che «i quaderni di Gramsci […] contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione […] alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito», (cfr. Giuseppe Vacca, Appuntamenti con Gramsci, Carocci, Roma, 1999, pp. 130-131).

10V.M. Miroševskij, El “Populismo” en el Perù: Papel de Mariátegui en la historia del pensamiento social latinoamericano, in «Dialectica», I, La Habana, maggio-giugno 1942, pp. 41-59 (traduzione di O “narodničeste” v Perù, in «Istorik Marksist», n. 4, Moskva, 1941).

11M. Löwy, R. Sayre, Rivolta e Malinconia. Il romanticismo contro la modernità, Neri pozza, Vicenza, 2017, p. 347.

12Marx a Vera Zasulič (1881), in K. Marx, F. Engels, India, Cina e Russia, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 246. Marx aggiunge allo stesso passo della lettera: «Perciò, non dovremmo spaventarci poi tanto della parola “arcaico”». Nella prefazione alla seconda edizione russa del Manifesto, scritta da Marx ed Engels nel 1882, proprio come contributo al dibattito con i narodniki russi sulla sorte dell’obščina, del mir e delle altre istituzioni agricole collettive ancora diffuse nelle immense campagne russe , si legge: «se la rivoluzione russa diventerà il segnale per una rivoluzione proletaria in occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico». Per un dibattito più completo sul concetto di romanticismo e il suo rapporto con il marxismo, cfr. M. Löwy, R. Sayre, Rivolta e Malinconia. Il romanticismo contro la modernità, Neri pozza, Vicenza, 2017.

13J.C. Mariátegui, Dos concepciones de la vida, in Id., El alma matinal, Amauta, Lima, 1971, pp. 13-16, Id., Due concezioni della vita, trad. it., di L. Ogno, in «Latinoamerica», XV, 1994, n 54-55, aprile-settembre, pp. 80-83.

14J.C. Mariátegui, El hombre y el mito, in Id., Amauta, Lima, 1971, p. 18 – 22. Il mito mariateguiano, per l’intera religiosità sulla quale poggiava, assomiglia, per quanto non così decantato, ai tolstoiani «irraggiungibili astri e la bussola» che dovevano servire da guida all’uomo. Indubbiamente però, il pensatore peruviano manteneva il concetto di mito nella pratica comune e misurabile, non intendeva farne una questione emozionale, sentimentale; non lo caricava come Tolstoj, di uno spiritualismo e di un moralismo esasperati. Tuttavia, esso era un’espressione assunta dal vitalismo, dal sorelismo. Su questo argomento, cfr. L. Tolstoj, Sonata a Kreutzer, Rizzoli, Milano, 1949, p. 110.

15J.C. Mariátegui, Difesa del marxismo, Fahreneit 451, Roma, 1996, p. 45.

16G. Lukács, Taktik und Ethik, in Id., Frühschriften II, Neuwied, Luchterhand, 1968, p. 69. A proposito di questo parallelo cfr. R. Paris, La formación ideológica de José Carlos Mariátegui, in Pasado y Presente, México, 1981, p. 147.

17Gramsci nella stesso periodo rivela una non inferiore tendenza all’idealismo volontarista. Nel suo famoso articolo La rivoluzione contro «Il Capitale» del 1917, il rivoluzionario sardo saluta con il medesimo entusiasmo manifestato dalLukács appena convertitosi al marxismo la rivoluzione bolscevica. Dopo aver affermato correttamente che «[il] massimo fattore di storia non [sono] i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro», Gramsci conclude dicendo che questi uomini «sviluppano […] una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace», (cfr. Antonio Gramsci, La rivoluzione contro «Il Capitale», in «Il Grido del Popolo», 1 dicembre 1917, ora in Id., Masse e partito. Antologia 1910-1926, Editori Riuniti, Roma, 2016, pp. 106 ss.)

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