
Il dibattito mediatico sul femminicidio di Saman Abbas visto da donne di seconda generazione
Saman Abbas, ragazza di 18 anni originaria del Pakistan, è scomparsa nella notte fra il 30 aprile e il 1 maggio 2021 nelle campagne di Novellara, comune della provincia di Reggio Emilia. Le ipotesi investigative rivelano quasi inequivocabilmente che Saman sia stata uccisa da componenti della sua famiglia per essersi opposta a un matrimonio forzato.
Una storia terribile, un dolore insopportabile che si rinnova ad ogni femminicidio che come ci raccontano i fatti non fa mai distinzioni di età, classe sociale, provenienza, religione dell’uomo che l’agisce. Il dibattito mediatico che ne è seguito è stato altrettanto terribile e insopportabile per la sua superficialità e per il continuo rimando a una retorica dello “scontro di civiltà” che non riusciamo ancora a scrollarci di dosso dall’11 settembre 2001, nonostante gli enormi danni e sofferenze che ha provocato.
Da attivista femminista ho sentito l’esigenza di ascoltare il punto di vista di donne legate alla comunità pakistana della zona di Novellara e non solo e di mettere a disposizione questo spazio per far conoscere i loro punti di vista, ancora troppo poco presenti nei media mainstream.
Sono molto grata a Marwa Mahmoud, consigliera comunale di Reggio Emilia che si è spesa pubblicamente moltissimo sulla storia di Saman in particolare per richiamare l’attenzione pubblica sulle conseguenze della mancanza della cittadinanza per i diritti delle seconde generazioni, di avermi permesso di entrare in contatto e di confrontarmi con queste tre fantastiche donne:
Sabika Shah Povia, giornalista freelance italo-pakistana che si occupa principalmente di storie legate all’immigrazione, ai diritti umani, agli estremismi politici e quelli religiosi, all’integrazione sociale e al razzismo.
Anwal Ghulam, 27 anni, mamma di una bimba di 19 mesi che le insegna la curiosità e l’apertura ogni giorno. È un medico che ha deciso di dedicarsi allo studio dell’epidemiologia. Passa le sue giornate con i numeri e le statistiche cercando di trovare fattori di rischio e protezione della salute. Nel tempo libero legge di religione, spirito e fantasia, ma anche antropologia e salute globale.
Iqra Ghaffar, 19 anni, studentessa Italo-pakistana, senza gli stessi diritti dei suoi coetanei.
Studia Diritto, Economia e 3 lingue straniere. Si dedica alla Cittadinanza attiva, partecipando attivamente al Laboratorio Avanzato di Cittadinanza di Reggio Emilia e soprattutto vive nella speranza di un mondo privo di pregiudizi e violazione dei Diritti Umani.
– Cosa pensi del dibattito pubblico che c’è stato sulla storia di Saman?
Sabika: Facendo questo mestiere e lavorando con l’Associazione Carta di Roma che si occupa del monitoraggio stampa sui temi che riguardano immigrazione, minoranze, e vittime di tratta, non ho notato grandi differenze nel caso di Saman rispetto al racconto di altri casi di cronaca che riguardavano minoranze etniche diverse da quella italiane e dove si cercava di creare un legame fra il crimine commesso e la nazionalità delle persone coinvolte. Nella stampa italiana si dà maggiore rilevanza a crimini commessi da persone non italiane, perché si prestano a facili strumentalizzazioni politiche. La vittima è pakistana, il carnefice è pakistano, si tende a generalizzare semplificando il tutto con la retorica delle donne musulmane viste come vittime che devono essere salvate versus uomini musulmani/pakistani cattivi che non si vogliono integrare.
C’è stato un tentativo di coinvolgere i membri della comunità pakistana all’interno del dibattito, che continua perché il corpo non è ancora stato trovato. Per certi versi è stata una novità, questo tentativo di diversificare il dibattito, ma al tempo stesso i membri della comunità venivano chiamati solo per giustificare o condannare l’accaduto, non per esprimere un pensiero più complesso o elaborato. Sono apparsi per difendersi da un attacco, lasciando poco spazio ad analisi più approfondite che potevano essere più costruttive. C’è stato un approccio superficiale. Spesso viene invitato un politico che ha un’agenda da inseguire e fa propaganda, viene chiamata una ragazza con il velo o un imam per difendere la religione, e qualcuno della comunità pakistana che possa fungere da capro espiatorio. Non si chiamano invece persone esperte di determinati temi. Sarebbe importante dare spazio ad altre figure professionali, come ad esempio psicologi di seconda generazione, operatrici dei centri antiviolenza, sociologi, persone impegnate nel terzo settore che cercano di portare un cambiamento concreto con il loro lavoro ogni giorno.
La cornice di questo caso è quella della violenze di genere, quindi di un uomo che pensa di possedere una donna e di poter decidere al posto suo, e se lei si rifiuta viene punita. Dovremmo parlare di questo tema che poi non riguarda solo la comunità pakistana. Si tende a fare giornalismo sensazionalista e superficiale. Invece dovremmo fare informazione, distinguere i contesti e individuare il problema reale e portare l’attenzione delle persone su quello. Abbiamo questa responsabilità come media. Purtroppo questo approccio oggi manca.
Anwal: Penso che il dibattito sia stato estremamente strumentalizzato da diversi partiti e personaggi per promuovere la loro agenda politica. C’è stata poca empatia per Saman e la sua tragedia personale, purtroppo la sua triste vicenda è diventata solo un altro strumento di propaganda. Noi esseri umani istintivamente cerchiamo cause semplici e immediate ai nostri problemi, ma uno studio approfondito di qualsiasi disciplina insegna che raramente i fenomeni possono essere spiegati con una spiegazione unica. Nel caso di Saman molti hanno approfittato di questo nostro istinto scegliendo e difendendo una causa singola che più aiutava le loro intenzioni, facendo un disservizio al pubblico che ancora una volta non ha potuto imparare la complessità del fenomeno migratorio e del successivo incontro delle culture.
Iqra: Il dibattito sulla storia di Saman è stato purtroppo molto strumentalizzato sia dalla politica, sia dai mezzi di comunicazione. E’ stato incentrato su attacchi e pregiudizi verso la comunità pachistana piuttosto che concentrarsi sui veri temi da trattare che a mio avviso sono: la violenza di genere e la mancanza di istruzione e integrazione delle persone che ne fanno parte. Ci tengo a specificare che la violenza di genere, l’uccisione di una donna da parte dei familiari per questioni di onore familiare, è punita dalla legge anche in Pakistan. Quindi non si può certo dire che la cultura della comunità pachistana legittimi o approvi questo tipo di atti, contrariamente a quanto molte volte nel dibattito è stato lasciato credere. Leggevo che i femminicidi in Italia dall’inizio del 2021 sono già oltre 30, penso che il problema della violenza di genere sia un problema generale nella nostra società di cui dovremmo occuparci senza distinzioni di nazionalità, cultura, religione etc.
Il dibattito a cui abbiamo assistito ha spinto molte ragazzi e ragazze come me di origine pachistana, che conducono una vita normale come tutte i nostri coetanei a doversi giustificare e a spiegare che la storia di Saman è un caso isolato e non rappresenta di certo le dinamiche familiari di tutte le famiglie di origine pachistana. In generale l’odio e il pregiudizio che hanno caratterizzato in gran parte il dibattitto rischiano di conseguenza da un lato di portare a una maggiore chiusura delle famiglie che si sentono attaccate e dall’altro di mettere costantemente le ragazze e i ragazzi di seconda generazione ad essere costantemente sulla difensiva e ad essere trattati come persone straniere in un paese in cui sono nate/i o sono cresciute/i sin dall’infanzia e che sentono come il loro.
– Come vorresti fosse il dibattito pubblico su storie come quelle di Saman?
Sabika: Non coinvolgerei i politici nei dibattiti televisivi volti a fare informazione, perché hanno una loro agenda da promuovere, proverei piuttosto a fare informazione. Coinvolgere i rappresentanti delle comunità è positivo, però ho notato che sono ancora poco ascoltate le ragazze, per capire le loro effettive libertà e desideri, coinvolgerei le persone che hanno strumenti per fare analisi più ampie. La cornice del dibattito sarebbe dovuta essere quella della violenza di genere, si tratta di un femminicidio. Il racconto mediatico spesso sminuisce il femminicidio giustificandolo con il “troppo amore”, o come “atto di gelosia”, mentre invece quando c’è un background diverso dell’uomo che commette la violenza, viene spiegato attraverso la cultura di provenienza. Il problema riguarda tutti, dovremmo comprendere il contesto e poi capirne le caratteristiche specifiche. Nel caso di Saman, il padre parlava poco italiano, viveva in campagna, non frequentava la moschea sunnita della zona perchè era sciita, insomma si trattava di una persona isolata. Quindi dobbiamo capire il fatto che c’è stata una mancata integrazione, una persona e una famiglia completamente isolati e abbandonati. Quindi violenza di genere e mancata integrazione sono i temi che avrei voluto fossero approfonditi nel dibattito.
Anwal: Il dibattito dovrebbe abbracciare la complessità e tenere in considerazione la storia dalla quale proveniamo come paese che accoglie culture diverse, e il futuro verso dove stiamo andando. È essenziale quindi guardare alla storia, ma anche alla geografia, le origini delle persone, e la loro cultura. Questa complessità non potrà essere realizzata fino a che non ci sarà la volontà di comprendere, eppure al momento nei media emerge solo la volontà di giudicare, finora sono state poche le analisi che intersecavano il dramma della vicenda con le dinamiche di potere che generano crimini di questo tipo, e ancora di meno la conoscenza della storia e dell’antropologia, discipline essenziali in situazioni di conflitto tra culture.
Iqra: Avrei voluto che il dibattito si fosse basato su come affrontare insieme come società il tema della violenza di genere e come migliorare l’integrazione in Italia delle persone che arrivano da altri paesi. Ad esempio non ci si è chiesto perché questo caso sia accaduto proprio a Novellara?
La storia di Saman mostra l’importanza dell’istruzione, di acquisire strumenti per leggere fenomeni di violenza come ad esempio quella psicologica. Per questo motivo, considerando che a Saman è stato impedito di frequentare le scuole superiori, sarebbe importante ragionare su come seguire maggiormente i casi di abbandono scolastico per capire i contesti da cui originano e fornire dei supporti adeguati. Le persone di prima generazione non hanno avuto sufficienti strumenti a disposizione per potersi integrare, hanno spesso trovato ostacoli linguistici e barriere legate ai pregiudizi nelle comunità dove sono andate ad abitare. Su questi temi sarebbe stato opportuno riflettere.
-Sei in rapporto con il movimento delle donne o associazioni di donne che si occupano del contrasto alla violenza di genere? Sono di supporto alla tua comunità? Come potrebbero esserlo?
Sabika: Ho collaborato con un’organizzazione non governativa per l’8 marzo girando uno spot contro la violenza di genere. Ho fatto delle interviste. Nei centri antiviolenza ci sono donne che fanno un lavoro pazzesco e ricoprono molti ruoli, mediatrice culturale, psicologa, amica. Ci sono molti ostacoli all’uscita da un contesto di violenza, e per le donne immigrate si aggiungono problematiche legate ai permessi di soggiorno, la non conoscenza della lingua etc. I centri antiviolenza andrebbero potenziati e rafforzati per aiutare le donne di qualsiasi nazionalità e provenienza, considerando che le operatrici potrebbero entrare più facilmente in contatto con le donne delle comunità straniere. Inoltre, la storia di Saman ci dimostra che spesso il supporto dei servizi sociali arriva troppo tardi. Saman era in una comunità protetta, ma intanto nessuno aveva parlato con la sua famiglia per costruire un dialogo. Saman sperava in una riconciliazione, apparteneva alla cultura della sua famiglia, cercava un equilibrio con le sue diverse identità. Sarebbe stato importante avere un supporto per la riconciliazione con la sua famiglia. Spesso non si pensa nemmeno a dare l’opportunità alle persone di capire e di potersi integrare, non c’è il tentativo di dialogo, in particolare con famiglie musulmane. Le associazioni di donne potrebbero davvero aiutare a colmare questo vuoto.
Anwal: Fra lavoro e famiglia non ho avuto modo di partecipare in prima persona, ma penso che queste associazioni vadano protette e deve esserci tanto investimento nella formazione di chi ha il compito i prendersi cura di persone vulnerabili spesso colpite dal fenomeno della vittimizzazione: le persone che hanno subito maltrattamenti e abusi nell‘infanzia e nell’adolescenza tendono ad essere vittimizzate più e più volte, perché in loro lo sviluppo dell’affettività e della protezione è patologico, l’unico amore che conoscono è quello associato all’abuso e alle dinamiche di potere interpersonali, e purtroppo una volta che l’amore viene interiorizzato in una maniera così distorta diventa una sfida enorme per l’individuo imparare che l’amore può e deve essere diverso e libero. Nella storia di Saman spesso ci si chiede perché non sia rimasta nella comunità protetta, quasi con fare accusatorio. La risposta la troviamo in questa visione dell’amore patologica, lei come tante altre donne e soggetti vulnerabili ha vissuto solo un amore intrecciato a dinamiche di potere, e l’unico modo che aveva di sentirsi amata era forse ritornare a casa.
Iqra: Non sono in relazione direttamente con movimenti o associazioni di donne che si occupano del contrasto alla violenza di genere, ma partecipo al Laboratorio Avanzato di Cittadinanza a Reggio Emilia con un gruppo di ragazze e ragazzi fra i 16 e i 20 anni e insieme trattiamo varie tematiche quali stereotipi e pregiudizi, e cerchiamo di sviluppare dei progetti per la nostra città. Penso sia molto importante lavorare insieme per affrontare il tema della violenza, confrontandoci anche su tematiche come discriminazione, cittadinanza, pregiudizi e stereotipi. Uno dei miei obiettivi e quello di affrontare questa tema insieme e cercare di capire cosa possiamo fare noi come LabAv per contrastare la violenza di genere.
– Quali azioni secondo te sarebbero efficaci per non avere più violenze all’interno della famiglia come nel caso di Saman?
Sabika: L’emancipazione della donna è fondamentale. Le donne che arrivano qui con il ricongiungimento familiare non hanno a disposizione percorsi formali e strutturati di integrazione. Ma l’integrazione è un problema in senso più ampio. Ad esempio, gli Sprar sono stati un buon modello, dal momento che prevedevano ad esempio l’inserimento nel mondo del lavoro per le persone, si cercava di dare autonomia, poi con i decreti sicurezza di Salvini, questi modelli sono stati smantellati. Con il nuovo governo si sta tentando di tornare indietro ed investire in questo tipo di approccio, ma non è semplice. Si dovrebbe partire dall’insegnamento della lingua italiana per dare autonomia, prevedere percorsi di inserimento lavorativo, rafforzare le figure come mediatori culturali e psicologi di seconda generazione che potrebbero fare da ponte tra le due culture, quella di partenza e quella di arrivo.
Anwal: Parlo da medico, le azioni dovrebbero essere di due tipi: preventive e di trattamento. La presenza nella casa protetta di Saman era già una terapia, ma la malattia era a uno stadio troppo avanzato. La prevenzione invece dovrebbe essere fatta con supporto sociale ed economico. I genitori di Saman nella terra straniera si sono appoggiati alla rete sociale di altri pakistani con i quali condividevano tradizioni e mentalità (perché anche tra i pakistani ci sono diverse tradizioni!) e non hanno mai condiviso un’identità collegata alla comunità di Novellara.
Cosa poteva essere fatto? È un problema complesso, a Novellara sono state portate avanti diverse iniziative meravigliose negli anni che permettevano alle donne di incontrarsi in spazi per sole donne, cucinare e mangiare assieme, e condividere pensieri e preoccupazioni, ma queste possibilità sono più accessibili a donne che abitano a distanza pedestre dai luoghi d’incontro, per le altre è necessario il coinvolgimento di qualcuno che possa portarle, inoltre col Lockdown è stato molto più difficile raggiungere le donne, come dimostrano le statistiche la reclusione in casa ha aumentato gli abusi sui più vulnerabili. E per quanto sia difficile costruire una rete di supporto sociale, è ancora più difficile migliorare lo stato socioeconomico degli individui. Se teniamo in considerazione la piramide dei bisogni di Maslow, fino a che non si raggiunge la sicurezza di un lavoro fisso e guadagno stabile, quindi la base della piramide, l’essere umano non ha energie per dedicarsi ad attività di realizzazione personale, e fino a che le persone non hanno il tempo di esplorare diversi modi di pensare non possono cambiare. Saman è una delle tante vittime di femminicidio. Il fatto che Saman così come tantissime donne e bambini abbia imparato un amore e l’affetto famigliare solo legato a dinamiche di potere ci dice diverse cose: la prima che i suoi genitori hanno promosso una struttura familiare molto gerarchica e patriarcale, e la seconda che noi non come società non siamo consapevoli, non sappiamo cosa sono le dinamiche di potere, non abbiamo risorse per salvare le persone dal fenomeno di vittimizzazione e soprattutto, che il problema è così complesso che finiamo per discutere di cose di poco conto in tv e sui giornali pur di non affrontare questa difficoltà, perdendo quindi la possibilità di fare PREVENZIONE.
Iqra Credo, come dicevo prima, che lavorare su istruzione e formazione sia fondamentale. La possibilità di acquisire strumenti di vario tipo ci permette non solo di sentirci parte della comunità in prima persona, ma anche di essere dei tramiti per le nostre famiglie per far comprendere meglio cultura, usi e costumi del luogo dove viviamo. Molto spesso infatti le persone di prima generazione non hanno avuto tante opportunità di socializzazione quotidiane come abbiamo avuto noi crescendo qui, per esempio andando a scuola e frequentando i nostri coetanei e coetanee in classe e al di fuori. Sarebbe importante avere molte più occasioni di frequentazione e scambio negli spazi di vita quotidiana e non solo in sporadici momenti legati a serate o iniziative specifiche. La conoscenza reciproca apre alla comprensione e rompe i pregiudizi presenti nella società. Inoltre, voglio sottolineare fortemente la necessità di rivedere le legge sulla cittadinanza, perché permette di accedere a strumenti importanti di supporto che altrimenti sono negati. Come ha già precisato la consigliera comunale Marwa Mahmoud, se Saman avesse avuto i documenti italiani, molto probabilmente non sarebbe tornata a casa per recuperare i suoi documenti pakistani e si sarebbe salvata.
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