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Intersezionale

Salute Mentale

Ultima.mente, non possiamo più permetterci di non parlare di salute mentale

Se non hai mai provato il dolore psichiatrico

non dire che non esiste.

Ringrazia il Signore e taci.”

-L’arte di legare le persone, Paolo Milone

Palloncino, per venire a trovarmi devi salire al nono piano. Ci parleremo dalla porta di vetro all’entrata, con il cellulare. Le visite dentro non sono ancora permesse”

Quando Pesciolino, dal reparto di Psichiatria 51 dell’Ospedale San Paolo di Milano, mi ha comunicato che l’unica maniera per fare i colloqui era questa, ho pensato che gli avessero somministrato troppi psicofarmaci, e che fosse confuso e con la mente annebbiata. “Come è possibile che, dopo un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, le discoteche riaprono, mentre molti reparti ospedalieri, tra cui quello di psichiatria, sono ancora sprovvisti di una stanza per le visite?” Impossibile, no? Una volta raggiunto il nono piano del San Paolo, ho realizzato con orrore che Pesciolino, se pur annebbiato, aveva ragione. In due mesi di ricovero, non ci siamo mai potuti abbracciare. Il nostro dolore poteva toccarsi solo attraverso un vetro.

Contatto, presso il reparto di Psichiatria 51

In quest’ultimo anno e mezzo, ben due Governi ci hanno invitati a sperare e a credere in un nuovo inizio. È vero: ad oggi siamo ripartiti, abbiamo ripreso a viaggiare e ci siamo riappropriati delle nostre vite. Eppure, anche se di nuovo liberi, molti italiani continuano a vivere nello spettro della sofferenza mentale” (Alessio Salvadori).

Ultimamente si parla di tutto, tranne che di salute mentale-. Questo sconcertante dato di fatto è la base di partenza del progetto di raccolta firme ultima.mente. Ultima.mente è una campagna di sensibilizzazione riguardo il tema della salute mentale; a crearla sono stati Alessio Salvadori, giovane laureato in Lettere alla Ca’Foscari, che ha lavorato come addetto stampa al Parlamento Europeo e alla Camera dei Deputati, e Giulia Silani, laureata in Grafica e Comunicazione Pubblicitaria all’ISIA di Urbino, ed ora studentessa di Arteterapia a Bologna. La domanda che ha portato questi due intraprendenti cittadini ad impegnarsi è: perché, anche dopo aver vissuto una (psico)pandemia globale, la mente e la sua cura rimangono sempre all’ultimo posto? Le persone in Italia sono lasciate sole ad esplodere. O, per meglio dire, ad implodere.

Il fine di ultima.mente, come mi ha raccontato Alessio, è quello di rompere le palle al Parlamento, per la creazione di una legge ad hoc, riguardo la salute mentale, che preveda:

  • Maggiori finanziamenti da parte dello Stato per le strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale che si occupano di salute mentale.
  • Un aumento dei servizi di sportello psicologico all’interno delle scuole, assieme ad un incremento delle campagne di informazione e sensibilizzazione riguardo la salute mentale e i servizi sul territorio, tramite scuole, università e canali istituzionali.
  • Il finanziamento, da parte dello Stato, di dieci voucher utilizzabili in servizi volti al sostegno psicologico, psichiatrico e neuropsichiatrico, per bambini e ragazzi dai 3 ai 25 anni. Ogni voucher può coprire una spesa massima di 60 euro, e sono destinati ai professionisti del privato che vorranno mettersi a disposizione.

“Questa è una campagna che ha l’obiettivo di farsi sentire, dal basso verso l’alto, tramite anche un contatto con professionisti, attivisti e associazioni universitarie e studentesche. Vogliamo creare un bacino critico che supporti la causa. Non è una raccolta fondi, non cerchiamo soldi. Vorremmo ascolto e poi cambiamento”. (Alessio Salvadori).

Di recente, ultima.mente si è unita in coalizione con Libera Associazione Psicologia, o LAPsi, un’associazione di giovani psicologi che ha raccolto oltre 27.000 firme per chiedere un piano di rilancio della salute mentale, tramite maggiori finanziamenti pubblici. Ad oggi, ultima.mente e LAPsi insieme, hanno raggiunto le 27.000 firme anche per la petizione creata da Giulia ed Alessio. È possibile firmare e diffondere la petizione sulla pagina Instagram di @ultima.mente, sulla pagina Facebook Ultimamente e sulla piattaforma Change.org.

“È cominciato tutto il 15 aprile, quasi per caso. Io e Giulia, a distanza, ci siamo imbattuti nella stessa notizia: il Presidente francese Macron aveva deciso di finanziare dieci sedute di sostegno psicologico per bambini e giovani dai 3 ai 18 anni, per aiutarli nel sostenere il peso degli effetti psicologici causati dalla pandemia di Covid19. In Italia, abbiamo letto per un anno e mezzo titoli di giornale che mostravano preoccupanti dati statistici riguardanti l’aumento, nei giovani, di condotte autolesive, disturbi del comportamento alimentare, e problemi psicologici e psichiatrici di vario genere. I numeri ci hanno turbato, mentre le persone continuano a lasciarci indifferenti.

La salute mentale è un argomento che mi è sempre stato a cuore, anche per motivi personali. Un mio carissimo amico è insegnante, e ogni volta che mi parla di come si sentono i suoi studenti, mi si accende un fuoco dentro. Come si può non comprendere quanto siano grandi gli effetti negativi che le restrizioni dovute alla pandemia, come la didattica a distanza, l’assenza di socialità e l’isolamento, hanno avuto su bambini e giovani? Poi, appunto il 15 aprile, ho visto che Giulia aveva commentato l’articolo riguardante Macron e la Francia. Quindi, l’ho chiamata e ci siamo convinti: dovevamo fare qualcosa.

Ad oggi, in Italia, la rete dei servizi pubblici per la salute mentale è scarna e mal conosciuta. Inoltre, parlare di sofferenza psicologica, disturbi psichiatrici e fatica mentale, è ancora spesso un tabù. Non è così ovunque. All’università ho fatto l’Overseas in Canada. Fuori da una classe, c’era appeso un cartellone che sensibilizzava sul tema del suicidio, dando anche un numero verde da chiamare in caso di pensieri suicidari. Intanto, nel nostro paese, esistono voucher per l’acquisto di una televisione, mentre la cura della propria salute mentale è ancora ritenuta uno sfizio da ragazzini viziati, invece che essere una priorità per tutti, al pari della salute fisica. Un disturbo mentale, come un disturbo fisico, se non viene diagnosticato e curato, da solo non passa.

Le scuole non hanno l’obbligo di investire i fondi a disposizione in sportelli di sostegno psicologico. E, quando lo fanno, spesso c’è uno psicologo per ottocento studenti. Così, il gravoso compito di supportare psicologicamente gli studenti viene affidato ad insegnanti che, spesso, non hanno la più pallida idea di quello che succeda nelle vite e nelle teste di questi giovani. Alcuni professori che abbiamo contattato non hanno aderito alla campagna, perché, a loro parere, la scuola non è una mamma.

Sicuramente, la scuola italiana non è una madre attenta ai bisogni dei propri ragazzi. Però, non perde mai l’occasione per essere un genitore che fa sentire gli studenti svalutati e umiliati, imponendo malsani tempi e traguardi competitivi. In generale, e da ben prima della pandemia, gli studenti italiani crescono sentendosi inadatti, convinti che, se a diciotto anni non sapranno esattamente chi e che cosa vogliono essere e/o diventare, la loro intera esistenza sarà un fallimento.

Poi, se sopravvivi all’università, ti viene imposto che, per essere qualcuno e scalare la piramide del successo sociale, devi lavorare circa dodici ore al giorno, senza pausa pranzo. Siamo in una società che ci causa tantissima sofferenza mentale, ma che ci insegna che stare male, e quindi fermarsi, è da sfigati. La cosa grave è che anche molti professionisti la pensano così. In questi mesi abbiamo contattato alcuni pediatri. Ci è stato detto che non bisogna medicalizzare i bambini: una corsa al parco e passa tutto. Chiariamolo, noi non vogliamo patologizzare nessuno, ma vogliamo che ai bambini venga dato il diritto di avere una propria complessità psicologica, con annesse fatiche, dolori e difficoltà. I voucher non saranno imposti, ma solo forniti come possibile strumento di sostegno. Però, in questo percorso, abbiamo anche incontrato molte persone speciali che hanno preso a cuore la campagna, e associazioni che hanno scelto di sostenerci attivamente, come The Good Lobby Italia, Unione degli Universitari (UDU) e Unione degli Studenti (UDS). Insieme, ce la possiamo fare a farci ascoltare.” (Alessio Salvadori).

Questa realtà ci mangia tempo, benessere e speranza, ci crea dei baratri di cui poi non si occupa, e ci obbliga a chiedere scusa quando sentiamo di non farcela più.

La società dei costumi non ha nulla da dire sulla morte per il semplice fatto che i morti non consumano.”

-L’arte di legare le persone, Paolo Milone

Eppure, è proprio da questa realtà che sono nati progetti solidi, umani e pieni di speranza come ultima.mente. Ed è a partire da qui che, nell’ultimo periodo, si sta levando in aria un grido di protesta e ribellione, grazie a numerosi/e attivisti/e della salute mentale, che non accettano più di rimanere zitti e buoni. Tra di loro, c’è Iman Scriba, una giovane attivista di origini marocchine di 24 anni, e studentessa di Chimica e Tecnologie Farmaceutiche presso l’Università Statale degli Studi di Milano.

Penso che l’indifferenza verso gli ospedali, soprattutto per quanto riguarda la cura della salute mentale, ci sia sempre stata. Sarebbe stato sorprendente se avessero fatto qualcosa per mostrare un interesse maggiore, preparando i reparti di psichiatria per questa drammatica esperienza. Già prima della pandemia, i reparti psichiatrici, di virologia o di malattie infettive, altrettanto stigmatizzati, erano lasciati a loro stessi, in fondo agli ospedali, in settori nascosti. I malati all’interno non possono essere fonte di disturbo o turbamento per gli altri malati, per quelli che la società accetta e protegge.

Il mio attivismo ed interesse verso la salute mentale è legato sia al percorso universitario che ho intrapreso, sia a motivazioni personali. Ho sofferto di un disturbo del comportamento alimentare, e a mio fratello Ilyas avevano diagnosticato un disturbo bipolare. Ho letto tantissimi libri di psicologia, per comprendere me stessa e per capire quello che succedeva ad Ilyas, e come interagire con lui anche nei momenti più difficili. Ho avuto un fratellino che mi occupava tantissimo tempo, fisico ed emotivo. Era la mia vita essere sorella di mio fratello. Poi, a diciannove anni, Ilyas si è tolto la vita. Da quel momento, non ho più tollerato che alcune realtà passassero per normali. Perché la vita di Ilyas è stata caratterizzata da tantissima violenza gratuita, sia da parte delle Forze dell’Ordine, che in ambito sanitario. Specialmente in ambito sanitario. La sua perdita è stata difficilissima da affrontare e gestire. Sto ancora cercando di farlo.

Però, mi ha risvegliato rabbia, una rabbia troppo intensa da trattenere. Perché non è possibile che un ragazzino di diciannove anni con tantissima voglia di vivere non ce la faccia, anche a causa di sistemi che avrebbero solo dovuto proteggerlo ed aiutarlo, e che invece hanno aumentato la sua sofferenza. Da allora, ho incominciato a condividere il mio malessere, perché era troppo grande. Dopo aver perso Ilyas, ho cercato storie simili alla mia, storie di sorelle che avevano perso un fratello per suicidio. Ho cercato in lungo e in largo, e non ho trovato proprio niente. Ma io avevo bisogno di qualcuno più avanti di me in questo dolore, qualcuno che mi potesse dire “ce la si fa, prima o poi andrà meglio”. Non ho trovato nessuno. Allora mi sono detta: non so se domani riuscirò a stare meglio e ci sarò ancora. Però, forse, al mondo esiste anche una sola persona che, entrando in contatto con la mia storia, la sentirà simile alla sua e si sentirà meno sola. Ecco, io per quella persona voglio esserci.


All’interno del mio contesto culturale non è presente una repulsione verso l’espressione dei sentimenti, soprattutto negli spazi femminili. L’occidente, invece, è caratterizzato da un modello esistenziale capitalista e individualista. L’essere umano in questa società è solo, è il fulcro di se stesso e vede gli altri in un’ottica competitiva. Il dolore ci rende fragili. La fragilità ci rende improduttivi e ci impedisce di accumulare denaro. Quindi, del dolore non si parla. Il dolore si deve reprimere. Questa esclusione del dolore dalla società conduce -e quasi obbliga- chi soffre di disturbi mentali ad isolarsi e rinchiudersi, per paura del giudizio, dello stigma, della violenza E, a rimetterci, è sempre la fragilità. In Italia è presente un fortissimo egocentrismo del dolore. Le persone sono ubriache del proprio malessere, ci nuotano dentro e non riescono ad uscirne per guardare anche quello degli altri.

C’è la tendenza a tapparsi gli occhi, considerando le proprie esperienze più terribili e ingiuste rispetto a quelle degli altri. Ma la questione è: anche se fosse? Soffrire non è una gara, è un atto di condivisione. Finché veniamo cresciuti in un sistema che ti obbliga ad avere come riferimento il miliardario di turno, il self made man o l’imprenditrice di successo, poco si potrà fare per il dolore a livello sociale, perché sarà sempre schiacciato dalla competizione e dall’ossessione produttiva. C’è bisogno di una ristrutturazione del sistema di valori su cui si basa la nostra realtà, tramite anche la condivisione di spazi sociali e di aggregazione, di luoghi pubblici. Dobbiamo (ri)creare nelle persone la capacità di interagire, anche con sconosciuti. A livello di città, non esistono più comunità umane. É fondamentale comprendere che tutti i problemi che non sono nostri, potrebbero diventarlo un giorno, in ogni ambito. Siamo creature fragili, e la nostra vita può cambiare completamente dal giorno alla notte. La possibilità di stare male ci rende simili. Ed è dal rifiuto di questa somiglianza, dal non voler mischiare i pazzi con i sani, dall’idea di dover considerare le gerarchie sociali come immutabili verità, che nascono le discriminazioni e stigmatizzazioni. Dal razzismo all’omobitransfobia, dalla grassofobia all’abilismo.” (Iman Scriba)

Parole che, già di per sé, sono una rivolta. Parole potenti, che ti trapassano. Parole come uno schiaffo, che tentano di girare il volto delle persone verso una direzione: quella della responsabilizzazione e della consapevolezza. Per quanto ancora, lo Stato e gli adulti, continueranno a voltarsi dall’altra parte, buttandoci in mare senza salvagente, e chiudendo gli occhi per tutto il nostro viaggio?

Conto su di me, senza calcolatrice

Mi becchi felice come il gelo che sorride

Questa vita è una savana, sei la preda o il leone che sbrana?

II giro con i bro fino a fine settimana

Quando le scrivo, mi sento meglio

Quando le incido, lascio il mio segno

Re di me, vivo nel mio regno,

La sola tela che disegno

Non sento attrito, volo seguendo il ritmo,

Non ho vinto la battaglia contro di me

Questa maglia copre il mostro che ho dentro

Questa paglia mi calma per un momento.

Ma sento che esplodo come a Capodanno

Poi a terra steso, come un panno

Rimpianto, dopo aver commesso un danno,

Stanco di fare corse, ora ho l’affanno.

-Maratona, IliyasStigma

Bisogna insegnare a parlare, scrivere, urlare. Incidere, partire, sognare. Levarsi in aria per poi cadere. Tempo scaduto. C’è bisogno di una nuova cultura del dolore, c’è bisogno di una rivoluzione empatica nel campo della salute mentale. Giovani in tutta Italia si sono alzati in piedi, si sono tolti le maschere e si sono uniti, tenendosi la mano in una condivisione universale della sofferenza e della delicatezza. Ora, tocca a voi piani alti essere coraggiosi. O, questi giovani fragili, stanchi, ma con tanta voglia di accendersi e brillare, li perderete.

Poetico è il mal d’amore, il rimpianto, il lutto,

poetico è il dolore tragico che trova ragione, vendetta, riscatto,

impoetico è questo dolore, monotono, lento, insaziabile, sequestratore.

Poetica è la nostalgia, impoetica la depressione.

Poetica è la fantasia, impoetico il delirio.

Poetico è il timore, impoetica l’ansia.

Poetico il desiderio, impoetica la dipendenza.

La poesia non frequenta la Psichiatria, si ferma sulla soglia.

Dove non entra la vanga della poesia, zolle dure, secche, infertili e fredde.

Noi ci occupiamo del dolore impoetico.

-L’arte di legare le persone, Paolo Milone

Comments (5)

  • Sara

    Gentile Camilla,
    grazie per il tuo pezzo, molto bello e utile a far conoscere questa iniziativa, mi permetto solo un appunto: peccato le tante citazioni del libro di Milone, che come forse saprai è stato molto criticato per il suo schierarsi in favore della contenzione, una pratica inumana come anche tu stessa scrivi nell’articolo su SanPa.
    Un caro saluto

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    • Camilla Ponti

      Gentile Sara,

      Grazie per il suo pensiero. Le spiego la mia scelta. Il contenimento di cui parliamo in SanPa prevede utilizzo di catene, violenza e deumanizzazione; è un’umiliante forma punitiva e metodo riabilitativo utilizzato come metodo normale.

      Paolo Milone è uno psichiatra eccezionale, che ha scritto il libro più profondo, delicato, straziante e soprattutto veritiero che io abbia mai letto riguardo alla psichiatra. Non so se lei abbia letto il libro. Quello che dice il dottor Milone, con non poco dolore e vergogna, è che nei reparti di psichiatria di urgenza, ogni tanto, per non permettere al paziente di farsi del male gravemente, può essere necessario per una notte legare un paziente.

      Milone è un medico empatico e pieno di umanità. Muccioli, se pur con intuizioni geniali, era un uomo, a mio parere ovviamente, con un delirio di onnipotenza e pochi reali sani principi.

      È molto diverso come utilizzo del contenimento. Spero che sia risultata più chiara la mia scelta. Grazie ancora

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  • Camilla Ponti

    Comunque, ci tengo davvero a ringraziarla per questo commento, perché coglie la complessità dell’argomento.

    Ma, a mio parere, mentre Muccioli utilizzava il contenimento spesso senza ragion di causa, per bisogno personale di controllo assoluto su chiunque passasse per la comunità, e senza essere professionalmente competente, Milone ci apre un dibattito umano e lavorativo sull’argomento. Muccuoli urlava al mondo di essere Dio -pretendeva di essere riconosciuto come tale- e usava le catene e la violenza per pulire, non per aiutare. Milone chiede scusa per essere un “semplice” uomo e ci parla di verità. Chiede consiglio, mette in dubbio se stesso e le proprie- a volte obbligate- metodologie. Come scrivo nell’articolo su SanPa, non è il contenimento in sé, ma come esso avviene e i principi alla base che lo muovono. Poi, io personalmente, sono contraria a questa metodologia. Ma, come Milone ci mostra, ogni tanto l’amore e le parole non bastano, ogni tanto per proteggere un paziente psichiatrico bisogna proteggerlo da se stesso, anche fisicamente. È un discorso così delicato e difficile che potremmo stare a parlarne per ore.

    Grazie ancora per lo spunto molto profondo e interessante.

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  • Sara

    Cara Camilla,
    grazie della risposta, ma capisco benissimo la differenza tra Muccioli e Milone, e lungi da me azzardare un confronto tra queste due persone… Quello che mi premeva sottolineare era che, al di là del successo del libro (che ho letto), proprio tante voci della comunità psichiatrica italiana criticano la difesa e poeticizzazione dei metodi di contenimento, quandanche ammantati di legalità come i TSO, perchè per dirla con Basaglia solo “la libertà è terapeutica”!

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    • Camilla Ponti

      Assolutamente vero, e riguardo questo discorso le consiglio un bellissimo articolo di Internazionale uscito mi sembra l’altro ieri, che affronta proprio questo argomento, ossia la libertà come presupposto per la presa in carico del paziente psichiatrico (con riferimento al sistema del Friuli Venezia Giulia che è super).

      Rispetto al libro, ma queste sono opinioni ovviamente, io non ho trovato una poeticizzazione del “legare le persone”, piuttosto una de-poeticizzazione di una certa parte di miti legati alla psichiatria (es: con un paziente in grave crisi psicotica basta parlarle e tutto passa). Penso sia importante sottolineare che Milone lavorava nel reparto di Psichiatria di urgenza, non in quello regolare. Ciò che mi ha trasmesso il libro è: questa è la realtà che abbiamo in mano nei momenti di crisi e di pericolo (a) legare b) imbottire talmente tanto di farmaci da stordire). Ed entrambi fanno schifo, ma sono ciò che per ora abbiamo. Io ho sentito un invito ai futuri psichiatri, psicoterapeuti e operatori ad aprire gli occhi, il cuore e a cercare mondi nuovi di cura, ma che abbraccio anche i bisogni dei pazienti e non solo le ideologie personali.

      Grazie ancora

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