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Intersezionale

Afghanistan: Un futuro da salvare

È il 15 agosto 2021. Sul display del treno sul quale sto viaggiando scorrono gli aggiornamenti delle notizie dal mondo. Si parla di covid, di green pass, di eutanasia, del ddl Zan ma, soprattutto, si parla di Afghanistan. “Gli USA evacueranno 30mila soldati entro il 31 agosto”, “Conquistata Jalalabad, l’ultima grande città dell’Afghanistan, oltre alla capitale Kabul, non ancora nelle loro mani”.

16 agosto 2021. È mattina e accendo la radio per ascoltare il Radio Giornale delle otto. La giornalista annuncia che il palazzo presidenziale di Kabul è stato occupato dai talebani, i quali hanno già issato il loro vessillo, sancendo così la nascita dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. “Nel mentre”, prosegue la giornalista, “si chiede che nessun Paese riconosca l’Emirato”.

26 agosto 2021, attacco terroristico all’esterno dell’aeroporto di Kabul.

C’è ben poco da aggiungere, ma tanto su cui interrogarsi. Alcune di queste domande le ho poste ad Alberto Mingardi, professore di “Storia delle dottrine politiche” all’Università IULM di Milano, nonché direttore dell’istituto Bruno Leoni:

Professor Mingardi, ci potrebbe spiegare in che modo crede che l’attuale situazione afghana potrebbe influenzare gli equilibri politici in Occidente?

Il boccino è nelle mani degli Stati europei. Sull’Afghanistan, al di là dei toni e delle concrete dinamiche del disimpegno, c’è stata continuità fra le amministrazioni Obama, Trump e Biden. Questo segnala che, comprensibilmente, gli elettori americani non se la sentono più di fare i poliziotti del mondo e pretendono dai loro leader una politica estera più parsimoniosa. Interessa agli europei prendere atto di questa situazione e provare ad occupare, anche parzialmente, il vuoto che si è creato? Se si, questa è un’occasione. Ma impone un radicale ripensamento della stessa retorica politica europea. Dalla decolonizzazione a oggi, e proprio per la cattiva coscienza del colonialismo, noi abbiamo smesso di occuparci del resto del pianeta. Le crisi che divampano nel resto del mondo diventano per noi problemi da gestire solo per quel che riguarda l’afflusso di rifugiati. Pensiamo a quanto accade in Medio Oriente o in Africa solo utilizzando parametri “migratori”. Se vogliamo occupare lo spazio lasciato libero dagli Stati Uniti, dobbiamo ragionare diversamente: ma questo vuol dire che deve cambiare non solo l’agenda degli Stati ma anche il linguaggio dei leader.

Come sta reagendo l’opinione pubblica occidentale a tutto questo?

Con una battuta, direi: scoprendo improvvisamente che gli americani sono gli unici americani che abbiamo. Le immagini che ci sono giunte da Kabul resteranno nella memoria. Ma è impressionante vedere le stesse persone che hanno, legittimamente, criticato le logiche dell’intervento statunitense ora stracciarsi le vesti perché quella fase è finita. Non c’è, invece, una riflessione di ampio respiro su quello che a me sembra il vero problema. Un problema, per così dire, cognitivo. È possibile che il presidente degli Stati Uniti faccia, come ha fatto Biden, affermazioni che a distanza di pochi giorni si sono dimostrate patentemente insostenibili? Sulla base di che informazioni, di che notizie, le faceva? A fronte di obiettivi ambiziosissimi, come “esportare la democrazia”, quali sono le informazioni e le conoscenze che effettivamente gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali riescono a mobilitare, per muoversi su territori così lontani sotto il profilo culturale? Dire: esportare la democrazia, o facciamo la pace, è facile. Per farlo però servono conoscenze precise e profonde. L’impressione è che troppo spesso queste ultime siano mancate, che l’opinione pubblica occidentale, sia quella più “conservatrice” che quella più “multiculturalista”, sia la prima vittima dei suoi slogan.

Dunque lei non crede che, allo stato attuale, possa esserci un dialogo costruttivo e duraturo con i talebani.

Purtroppo sarei tentato di dirle di no, non siamo ancora pronti. Dipende tutto dalla qualità di conoscenze e di informazioni a disposizione degli Stati e delle loro tecnostrutture. Sapere chi si ha davanti, in questi contesti, richiede una conoscenza profonda della storia e delle sfumature che la religione può assumere. Mi stupirebbe molto, però, se, come immaginano certi impenitenti ottimisti, con la forza della diplomazia si riuscisse a persuadere i talebani a riconoscere diritti individuali quali i diritti delle donne che sono, giustamente, in cima alle preoccupazioni di tutti.

Conclusa l’intervista vengo colta da uno stato di profonda amarezza. Mi chiedo: come si è arrivati sino a questo punto? Subito torna alla mia memoria un articolo che ho letto una settimana fa, scritto da Filippo Rossi e pubblicato sulla rivista dell’Espresso del primo agosto 2021. Il giornalista esordisce così: <<L’Afghanistan si trova nella situazione peggiore della sua storia>>, che, letta come prima frase del suo articolo mi aveva colpito particolarmente. Sappiamo bene quanto dura e logorante sia stata la guerra in Afghanistan, guerra della quale è difficile persino definire una vera data di inizio così come di fine. Come è possibile, dunque, che oggi un giornalista da Kabul, mi informi che tutti quei film che ho visto, i libri che ho letto, le scene di guerra che da bambina vedevo scorrere sullo schermo della TV mentre seguivo il Telegiornale, non siano nulla in confronto a ciò che sta accadendo ora? Cosa è cambiato?

Come e quando è degenerata la situazione? Per il giornalista la ragione principale di questa evoluzione dei fatti è il ritiro della Nato, avvenuto proprio nel momento in cui i combattimenti si sono fatti più intensi e il popolo afghano si è ritrovato con ancor meno certezze di prima. Sappiamo bene come <<l’incertezza per il futuro>>, come ci ricorda l’analista Nastrullah Haqpal, citato dall’Espresso, <<ha ripercussioni sull’economia, la vita sociale, l’educazione e la sicurezza>>. A dirla tutta, quello della Nato non è stato solo un ritiro, ma una fuga. Lo dimostra quanto accaduto il 2 luglio 2021, quando, nel mezzo della notte, l’ultima compagnia di soldati americani è decollata dalla pista della base aerea di Bagram, lasciando sguarnita la base e senza degnare gli afghani di alcun avvertimento.

È stata una sorpresa, dopotutto Biden aveva annunciato l’11 settembre come data simbolica per il ritiro delle forze armate dal Paese. Fra l’altro, quella di Bagram, non è una base qualunque, infatti <<chi controlla Bagram>> racconta il generale Mir Asadullah Kohistani, ora comandante della base aerea abbandonata, intervistato dall’Espresso, <<controlla l’Afghanistan. I Talebani hanno annunciato che avrebbero attaccato, ma noi la difenderemo ad ogni costo>>. Fieri di poter controllare la base, ma con l’amarezza di essere stati abbandonati, i soldati afghani stanno continuando a combattere, ricorrendo a qualunque mezzo, fra cui quelle che chiamano “forze di insurrezione popolare”: signori della guerra diventati improvvisamente paladini democratici del governo e che, a loro volta, hanno iniziato a governare interi quartieri di Kabul, nei quali oramai l’esercito e la polizia sembrano non avere più giurisdizione. Ci si chiede anche se queste nuove forze si allineeranno con il governo oppure, presto o tardi, saranno anch’esse un pericolo per la sua stabilità.

Insomma, una guerra fallita per l’Occidente, alla quale mai gli afghani avevano chiesto di partecipare, ma noi occidentali abbiamo deciso di prendere parte alle lotte intestine, intervenendo, ufficialmente, con il fine di portare la prosperità e la democrazia attraverso la cacciata dei talebani. <<Dov’è la democrazia? E la prosperità?>> si chiede l’analista Haqpal.

Già, che fine hanno fatto i buoni propositi? Persi fra i milioni di sfollati, esplosi con le mine antiuomo, volati via con gli americani, sugli aerei che oggi sorvolano i cieli di Kabul guardando sventolare, dall’alto del cielo, la bandiera nemica sul palazzo presidenziale della capitale. Eppure, in quel giornale del primo agosto si poteva leggere ancora una speranza: quella del professor Fahim Sadat, secondo il quale i Talebani non avrebbero conquistato Kabul perché, <<per quanto siano forti nel conquistare, come si è visto già in varie occasioni, non riescono a mantenere una regione e gestirla. >>, inoltre, molti dei cittadini che un tempo credevano nelle forze Talebane e aderivano al movimento, dopo i molteplici abusi e la distruzione delle moschee, si stanno oggi ricredendo. Purtroppo però il 16 agosto le cose sono andate diversamente, e dopo 20 anni di false promesse da parte di noi occidentali, Kabul è caduta nelle mani nemiche, conquistata, spaventata, mentre il presidente Ghani, agitato dalla situazione di panico generale, sta continuando a far arrestare chi critica il suo operato e quello degli altri politici. I cittadini continuano a morire e, i più fortunati, a scappare.

Siamo dunque in una fase della storia dell’Afghanistan che risulta essere piena di incognite: le potenze occidentali non sanno se e come gestire la problematica attuale, né sanno cosa si prospetti per il futuro nei progetti dei talebani. Nel mentre, si assiste non solo al fallimento della nostra “spedizione per la democrazia e per la libertà”, ma addirittura ad un rapido quanto doloroso regresso in una situazione nella quale agli afghani, a mano a mano, vengono meno ancor più di prima quei diritti e quelle libertà.

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