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Intersezionale

Brown dog: lotta di classe contro la vivisezione

In copertina: Opera di Andrea Nurcis per la copertina dell’edizione italiana

Chi ha detto che il movimento di liberazione animale è qualcosa di recente, un fenomeno degli ultimi cinquant’anni, nato precisamente nel 1975 con la pubblicazione di Animal Liberation, il libro del “padre” dell’antispecismo Peter Singer? E chi ha detto che questo filone di pensiero, inizialmente accademico e legato alla filosofia morale, solo negli ultimi dieci-quindici anni si è politicizzato, scoprendo quell’irresistibile oggetto del desiderio che è l’intersezionalità?

Beh, tuttǝ noi, o quasi. Ma, a ben pensarci, questa narrazione si è affermata solo grazie all’invisibilizzazione di pezzi di una storia più articolata, e di tante “piccole” storie che raccontano di una tradizione ben più lunga e, soprattutto, complessa. Non solo complessa: spesso più radicale. Più intersezionale, in un senso del termine simile a quello che intendiamo noi oggi.

Per questo, dobbiamo essere profondamente gratǝ a chi recupera tasselli di questa storia minore. ll caso del cane marrone, recentemente tradotto da Barbara Balsamo, Marco Caprasecca, Giovanni Manizzi e Silvia Molè per i tipi di Vanda Edizioni è un’inchiesta pubblicata nel 1997 dal giornalista Peter Mason sulle controversie relative al monumento dedicato al Brown dog nel 1906 a Londra. La vicenda ha inizio tre anni prima, quando due studenti svedesi poco note, Louise Lind-af-Hageby e Leisa Shartau, scrivono un libro destinato a suscitare lunghe polemiche. The Shables of Science è la testimonianza degli atti di vivisezione praticati durante le lezioni frequentate dalle autrici presso diversi laboratori e aule universitarie inglesi. Le due donne sembrano essere delle antesignane di quellǝ che oggi chiameremmo attivistǝ infiltratǝ, dato che all’epoca sono già convinte antivivisezioniste, fondatrici dell’Antivivisection Society of Sweden. Il manoscritto viene presentato all’avvocato Stephen Coleridge, che viene colpito dal racconto delle lezioni di fisiologia compiute presso la University of London’s University College, e in particolare dalla descrizione delle dimostrazioni condotte su un non meglio precisato “cane marrone”, presumibilmente sottoposto a diversi esperimenti senza anestesia prima di quel giorno.

Black-Tailed Hare (1841) painting in high resolution by John James Audubon. Original from the Saint Louis Art Museum. Digitally enhanced by rawpixel.

Coleridge, in accordo con le autrici, decide di rendere pubbliche le torture del dottor William Bayliss e di tutta l’università. Ne nascono discussioni sui giornali, interrogazioni parlamentari e una controversia giudiziaria fra Coleridge e Bayliss. Ma, soprattutto, nonostante la sconfitta nel processo per diffamazione, l’atto di denuncia fa maturare a un’altra donna antivivisezionista, Louisa Woodward, l’idea di commissionare allo scultore Joseph Whitehead una fontana con una statua dedicata al cane marrone, da collocare sul suolo pubblico. Il progetto prende forma con il sostegno di Louise Lind-af-Hageby. L’opera è corredata di un’iscrizione che costituisce un attacco frontale alla vivisezione: “In memoria del terrier marrone, condotto alla morte nei laboratori della University College nel febbraio 1903, dopo aver patito la vivisezione per più di due mesi ed essere passato da un vivisettore all’altro finché la morte è giunta a liberarlo. In memoria anche dei 232 cani vivisezionati nello stesso luogo nell’anno 1902. Donne e uomini dell’Inghilterra, quando finirà tutto questo?”

La richiesta di collocare un monumento che si annuncia a dir poco controverso, dopo il diniego di alcuni quartieri londinesi, viene portata al distretto di Battersea. Battersea era un luogo molto particolare. Secondo Mason, “nel 1904 la zona aveva acquisito una reputazione a livello nazionale in quanto focolaio di politiche alternative e terreno fertile per movimenti sindacali, per repubblicani, anticoloniali, socialisti locali, home ruler irlandesi, suffragette e antivivisezionisti”.

Chi ha detto che la storia è progressiva?

Che mostra un cammino lineare verso una sempre maggiore consapevolezza, una maggiore sensibilità politica, una maggiore uguaglianza? Sembra che allora, in effetti, la capacità di collegare le lotte, di concepirle come parti di un percorso comune, seppur senza le elaborazioni teoriche cui siamo oggi abituatǝ, fosse moneta corrente. Le femministe erano “naturalmente” dalla parte delle cavie non umane, così come operaiǝ, sindacalistǝ, miltanti indipendentistǝ.

Era diffusa persino un’opposizione alle vaccinazioni obbligatorie da cui emergeva una venatura di classe molto più limpida di quella odierna: il partito progressista locale vi si opponeva con veemenza per solidarietà con gli animali oggetto di esperimenti, per difendere la libertà di scelta, ma anche perché “credeva nella prevenzione delle malattie migliorando le condizioni igieniche e gli standard di vita” delle fasce di popolazione meno abbienti. L’unico ospedale generale del distretto era noto per curare gratuitamente chiunque e per rifiutare in toto la vivisezione. Insomma, una propensione all’intersezionalità incarnata e concreta da cui avremmo molto da imparare, come ben sottolinea Marco Maurizi nella prefazione al libro. In questo contesto, intorno alla statua, si scontreranno per alcuni anni questa generosa e composita opposizione sociale e le forze della reazione, con alterne fortune (no spoiler).

Pink Flamingo from Birds of America (1827) by John James Audubon (1785 – 1851 ), etched by Robert Havell (1793 – 1878). Original from University of Pittsburg. Digitally enhanced by rawpixel.

Possiamo dunque affermare che da allora non abbiamo fatto grandi passi in avanti? Per molti versi, direi di sì. Quel movimento era più legato alla classe operaia, in modo immediato e quasi “istintivo”; la sua composizione era più femminista, nel senso che le donne, spesso suffragette, non erano semplicemente in maggioranza, ma prendevano parola e indirizzavano l’agenda politica. Non solo: il dibattito che erano in grado di suscitare risultava efficace, poneva questioni ineludibili, spesso tali da mettere in crisi le autorità accademiche.

Se guardiamo alla situazione attuale, invece, la vivisezione sembra più indiscutibile, a giudicare dal livello della discussione pubblica e dal livello di conflitto che la circonda. Anche le risorse economiche che girano intorno a tali attività sono ingenti. Ma, soprattutto, il numero di animali imprigionati nei laboratori non sembra essere incoraggiante (secondo quanto riportato dalla LAV riporta un totale di 9 milioni di cavie utilizzate nel 2018 in Europa). Il sapere accademico non sembra molto cambiato rispetto all’immagine che emerge leggendo Il caso del cane marrone, in cui la casta dei medici, supportati dai giovani studenti del ceto medio-alto, erige un muro a difesa della propria impunità: stesse modalità di risposta, stessa omertà, stesso ricorso alla retorica della Scienza con la S maiuscola.

E il movimento dell’antivivisezionismo di inizio novecento era anche meno ambiguo nella terminologia. Non è un caso se in queste poche righe ho scelto di utilizzare un termine che ricorre negli scritti delle attiviste di quei tempi, “vivisezione”. La pressione semantica esercitata dalle lobby della ricerca ha fatto sì che, negli ultimi anni, si affermasse la locuzione “sperimentazione animale”, come se di fronte a una forma di utilizzo non consensuale di corpi altrui dovessimo adottare la cautela di sposare un linguaggio neutro, che non influenzi il giudizio su una certa pratica (la neutralità sta dalla parte dell’oppressore!). Sempre più spesso si trova poi, anche nella critica animalista, l’asettica sigla “SA”. Uno strano politically correct che, a differenza del linguaggio inclusivo, tutela gli oppressori più che lǝ oppressǝ. Le energie che gli sperimentatori spendono per soffocare l’uso del termine “vivisezione”, del resto, è un ulteriore motivo per adottarlo, in continuità con Louise Lind-af-Hageby, Leisa Shartau e tante altre, come Frances Power Cobbe, che già a fine ottocento aveva attaccato frontalmente il potere, tutto maschile, di disporre dei corpi animali per incrementare la conoscenza (e le possibilità di carriera). Parresia: dire la verità al potere.

Ma l’eredità delle lotte che hanno trovato forma intorno al memoriale del cane marrone non è mai stata davvero perduta, e la vediamo riemergere incessantemente, come sottolineano Barbara Balsamo e Silvia Molè nella loro postfazione. La prima volta che ho visto questa radicalità è stato a un presidio davanti alle aule di Farmacologia dell’Università Statale di Milano. Eravamo in piazza a sostenere un gruppo di ignotǝ che, in pieno giorno – e non a caso a ridosso del 25 aprile – avevano fatto irruzione nei laboratori liberando decine di prigionieri non umani, portandoli verso un destino migliore e facendo infuriare le autorità accademiche. Qualche anno dopo, un gruppo di attivistǝ del Coordinamento Fermare Green Hill, stavolta a volto scoperto, avrebbe occupato quegli stessi laboratori per liberare 400 topi e un coniglio. Ancora: dire la verità al potere, gridargliela in faccia.

Come ci ricorda Sara D’Angelo in appendice al libro, le cavie “attendono. In un silenzio senza tempo. A volte nemmeno aspettano più nulla”. Eppure, esistono sempre persone che, come le due attiviste svedesi protagoniste della vicenda del cane marrone, a un certo punto scelgono di non voltarsi dall’altra parte.

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