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Intersezionale

Appunti di fine estate

È da qualche mese che fatico a scrivere, o meglio, a giungere alla fine di un pezzo.

Oramai mi limito alle liste. Adoro scrivere liste di cose, è una mania, una necessità. A volte scrivo addirittura la lista delle persone a cui devo rispondere su WhatsApp. Non amo troppo le liste della spesa, mentre le liste delle cose da fare mi mettono ordine nella testa e anche un po’ di sconforto, perché alla fine non riesco mai a rispettarle. In questo periodo dell’anno mi concentro soprattutto su due liste: quella dei buoni propositi per gli ultimi mesi dell’anno e quella dei regali per il mio compleanno. Puntualmente, non porto a termine nessuna delle due.

Per alcuni mesi scrivere liste ha soddisfatto la mia necessità di mettere per iscritto quello che mi passava per la testa, ma l’inconcludenza dei pezzi che provavo a scrivere è diventata oramai insostenibile.

Questa incompletezza mi causa infatti un senso di pesantezza dal quale spero di liberarmi ora: l’alternativa è l’implosione, il crollo dei miei argini a causa del torrente dentro di me che oramai si sta ingrossando eccessivamente.

Sono le 11.38. Sono seduta al tavolino di un bar nella località balneare dove trascorro parte delle ferie da ventiquattro anni, sono alla mia seconda colazione – che, quando non lavoro, è uno dei miei momenti preferiti – e sorseggio un bicchiere di succo al mirtillo.

Non ho troppe abitudini, ma adoro averne qualcuna e la colazione è una di queste: sono case mentali nelle quali mi rifugio, in cui stare con me stessa e con poche altre persone.

Lo stereo trasmette Pensiero stupendo di Patty Pravo: con le sue canzoni ci sono cresciuta, mio padre l’ascoltava sempre in macchina, e questo suo pezzo è forse il mio preferito da ascoltare, ma soprattutto da cantare al karaoke.

Sto scrivendo in un momento all’apparenza casuale: ho con me il computer solo perché a casa la connessione non funziona e devo comprare il biglietto del treno per rientrare a Napoli, ma in realtà accade sempre così, e cioè che il torrente più o meno impetuoso, dopo aver scavato dentro di me, ad un certo punto decide di sfociare dal sottosuolo.

È il primo anno in cui non riesco ad incontrare parecchi amici del gruppo del mare: non ci siamo incastrati bene con i giorni e il risultato è che ho avuto parecchio tempo per leggere e pensare, per fermarmi e stare un poco male.

Pensare, infatti, m’affatica sempre un po’: i problemi soffocati dalla freneticità quotidiana – che sono maestra nel mantenere a ritmi di vita insostenibili – riemergono, e realizzo che in realtà non mi abbandonano mai, ma costituiscono il sottofondo musicale della mia esistenza, un po’ come l’ansia, che ne è motore fondamentale.

Si tratta di problemi a volte personali, a volte generali.

Che poi anche i problemi personali non sono quasi mai individuali ma collettivi.

Basta poco per rendersene conto: una chiacchiera con un’amica sulle spese di casa, una sigaretta col collega riguardo gli attacchi di panico che lo prendono la notte pensando al suo futuro, una chiamata con una persona che non sento da tempo e che ora soffre di depressione, una parola critica scappata dalle labbra sulla propria famiglia, un sospiro a commento della propria condizione lavorativa.

Il confronto ha un’incredibile potenza distruttiva delle mura dell’isolamento: raccontare e ascoltare è un atto di cura imprescindibile non solo per liberarsi dai pesi che ci schiacciano, ma anche per tracciare delle linee di connessione tra le varie vite, rompere la dimensione (apparentemente) individuale del problema e collettivizzarlo.

Sento, però, che, a volte, è come se mancassero i passaggi successivi, quelli dell’immaginazione e dell’organizzazione.

Qualche settimana fa, vagando per Napoli insieme ad un’amica alla ricerca di sussurri d’aria, abbiamo ragionato sulla mancanza di immaginazione, sul fatto che si tratti dell’ennesimo furto a nostro danno (chiunque si senta sbandat, scomod, sconfortat, soffocat, frammentat, sfruttat, oppress è ben accett in questo noi): senza immaginazione è possibile solamente procedere a tentoni, giocare al massimo sulla difensiva senza la possibilità di decidere al di là del quadro che ci viene proposto, annegare nelle nostre vite che a volte è come se fossero altro rispetto a noi.

La violenza – di classe, patriarcale, razzista – della società è sicuramente giunta anche a questo, ad offuscare l’immaginazione e la sua potenza conflittuale, costringendoci a vivere schiacciati dalla precarietà, sempre più sol e a pezzi, limitandoci a guardare, quando ci va bene, il tramonto del giorno che passa senza mai poter assistere al sole di quello nuovo.

“[…] a chi ha lavorato

a chi è stato troppo solo

e va sempre più giù

a chi ha cercato la maniera

e non l’ha trovata mai

alla faccia che ho stasera

dedicato a chi ha paura

e chi sta nei guai […]”

Si sono fatte le 12.03 e Loredana Bertè mi abbraccia con la sua voce roca.

Negli ultimi mesi ho accumulato una serie di argomenti di cui vorrei scrivere: della situazione relativa ai suicidi/omicidi di stato in carcere, dell’omicidio di matrice razzista verificatosi a Civitanova Marche, del libro che sto leggendo ora e che un po’ mi fa pensare a Napoli nonostante sia ambientato in Scozia, della questione di classe nella serie tv Peaky Blinders, della situazione inerente al diritto all’aborto a San Marino a quasi un anno dal referendum in ordine alla depenalizzazione dell’IVG.

Non sono, però, ancora riuscita a concludere nulla e forse va bene così, perché mi mancano quelle parole che solo l’immaginare e lottare assieme ti possono dare. Tutto il resto sarebbe probabilmente fine a sé stesso, si tratterebbe più di uno sfogo personale privo di potenza trasformativa per le capacità di ragionamento che mi appartengono, un po’ come questo articolo, ennesimo risultato di un mondo che iperproduce fino alla nausea.

Realtà che immaginano, si organizzano e lottano certamente esistono, ma sarebbe potente se immaginare tonasse ad essere un esercizio più comune, se guardare al di là dell’orizzonte già stabilito fosse una pratica più diffusa ed organizzata.

Sono le 12.17 e sento la voce di De Gregori provenire dalle casse, ma è un brano di cui non ricordo il titolo.

Occorrerebbe tornare ad immaginare collettivamente e a volere tutto, anche quello che ancora non esiste. Occorrerebbe farlo collettivamente ed in maniera organizzata, e forse smetteremmo di morire un poco quotidianamente soffocat nelle nostre solitudini.

Sono le 21.19.

Vorrei tanto ascoltare Claudio Lolli o Gianfranco Manfredi, ma sono a casa e, come già detto, internet non funziona e non c’è la connessione wi-fi.

Vorrei cullarmi nella nostalgia di tempi andati, poco conosciuti e mai vissuti, alla ricerca di qualcosa che non c’è, ma che desidero, che immagino certamente esistere in altri mondi.

L’immaginazione non deve morire mai: non si tratta di un sogno irrealizzabile, ma di un obiettivo politico, di una forza distruttrice e creatrice fondamentale per la vita.

L’aria in giardino si è fatta fresca, preludio di un autunno che certamente tarderà ad arrivare in città, nel cielo sopra la mia testa ci sono oramai più aerei che stelle ed al frinire dei grilli si alterna, in lontananza, l’ultima canzone di Irama.

La conosco, perché purtroppo adoro i tormentoni estivi.

Ho iniziato a scrivere questo pezzo spinta dalla necessità di fare spazio dentro di me, non avevo un’idea precisa di cosa scrivere e penso si noti.

Giunta a questo punto provo almeno a formulare una conclusione, augurandomi che la fine dell’estate porti con sé venti autunnali di immaginazione collettiva e di cura reciproca. Ne abbiamo bisogno per non finire come foglie secche e sparse, ma diventare fuochi che bruciano e scaldano.

Si sono fatte le 22.12, il succo di mirtillo ha ceduto il posto al Prosecco da qualche ora. Mio fratello ascolta un remix di Suavemente sotto la doccia e io canto in giardino in maniera sicuramente molesta per i vicini.

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