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Intersezionale

“Cose un po’ scomode cucite sul morbido”: conosciamo Anastassìa Caterina Angioi, autrice del sommerso

Incontro Anastassìa Caterina Angioi e il suo libro “L’amore non cura. L’amore si cura” – edito da Albatros – restandone affascinata sin da subito. È possibile raccontare storie di abusi, di violenze, di resistenze e di resistenza, ma farlo come se ogni storia fosse una parte del quotidiano di ognuno di noi, senza poterne rimanere esclusi o, almeno in parte, coinvolti? Un filo di comunanza che mostra e dimostra una normalità disarmante, niente da ricercare o da attribuire a situazioni estreme o emergenziali, come questo libro conducesse là dove tutto ha inizio, tra le relazioni dapprima gentili, tra le case tenute in ordine e i sentimenti lasciati in disordine. Un’autrice giovanissima; eppure, con alle spalle esperienze plurime, intense e contrapposte, un’autrice che si racconta per noi in questa intervista che vi consigliamo di non perdere, fino all’ultima parola.


1) Inizio da una domanda che le è stata rivolta da un giornalista nel 2019, a cui non ha saputo dare una risposta definita. A distanza di tre anni e una pandemia, gliela ripropongo: chi è Anastassìa Caterina Angioi?


Oggi Anastassia ha probabilmente più parole da articolare, rispetto al 2019. Credo accada così, a chi si ritrova da grande a imparare come si viene al mondo e darsi il permesso di desiderare. So che non sono sola a portare avanti questa ricerca, succede a tanti di nascere già con più o meno inverni sulle spalle e non sapere bene di che specie animale si è, che gusto di gelato si ama di più e di che confini è fatto il proprio corpo, fino a che con coraggio non ci si toglie dalle spalle quella ben cucita a sé zavorra, lasciando cadere uno zaino pesante non scelto. Chi è Anastassia…. resta comunque una domanda difficile, anche se da quell’intervista, di vita, ne è passata parecchio. Tante cose, credo. Una ventisettenne che ha smesso di fare tutto alla perfezione, un po’ bimba un po’ vecchia, tessitrice di vissuti e di silenzi abissali, di carezze mancate, di ingiustizie impensate e di speranza, che nelle retrovie non resta a guardare. Non posso, per carattere e credo anche vocazione, per senso di vita, per la mia storia, per quanto coraggio è servito per essere qui oggi. Prendo in prestito, se posso, l’espressione estremamente potente usata da lei. Autrice del sommerso, sì, forse ha ragione. È proprio questo il senso. Riemergere dalle macerie. Ma curatrice, credo, di più. Colei che cura. La sento così vivida, questa parola, così fisica e costante, in divenire, in movimento, porta e trasporta la delicatezza certosina della pazienza e del cucire, rassettando, tra sbagli e cambiamenti come può, ascolti, anime, occasioni, materia, contaminazione e scomodità, quelle in cui non ignorarsi, in quel sommerso dagli altri, dal dolore, dalla consuetudine dalle priorità delle vite degli altri, sempre più importanti della propria, e in ciò che abbiamo volutamente sommerso perché spesso e volentieri non potevamo altrimenti. Noi stessi. Pesco ogni giorno con dedizione, quando la nausea pervade e il cielo azzurro non si vede, da un quotidiano maltrattato, da un passato che chiede aiuto, cerco di portare alla luce ciò che brilla ma si dimentica, mi faccio mezzo per chi ha desiderio di parola, senza la pretesa di dover sistemare le cose per forza, ma perché si sappia che una mano tesa, la mia, c’è. Subacqueo di macerie, di ricordi, gioia e prospettive, di occasione e accoglienza. Di qualcosa che a volte abbiamo davanti ma non notiamo, eppure ha estrema necessità di essere visto, qualcosa che talvolta grida, altre
sussurra, spesso non sa come né dove. Io sto lì, a braccia aperte. Anche quando è difficile. Soprattutto, quando è difficile. Lì dove nessuno ti dà credito, lì dove ci giriamo tutti dall’altra parte. Alla fine, non è niente di trascendentale, l’ascolto e la cura appartengono a ogni essere umano, solo che non tutti se ne ricordano. Ora, almeno, so di essere questo. Un megafono per il silenzio, l’ingiustizia, i vissuti perché nessuno si senta ignorato e invisibile davanti a un altro essere umano. Facendo ciò per cui mi sento in grado di stare al mondo: prendermi cura degli altri. Ma stavolta, provando a includermi, senza dimenticarmi di me. Credo di essere una voce, finalmente. Che combatte, intrecciando la lana alle dita, i muri del silenzio.


2) La sua vita è fatta di esperienze spesso contrapposte, almeno in apparenza, per questo le chiedo di descriverci quattro momenti: quale emozione ha provato quando ha vinto l’argento
iridato ai Mondiali come lunghista; quale emozione ha provato quando è stata premiata come terza classificata al Concorso pianistico “Sulle Orme di Mozart”; quale emozione ha provato
quando è entrata a far parte dell’Arma e infine cosa ha provato quando ha visto per la prima volta pubblicato “L’amore non cura, l’amore si cura”?


Decisamente, contrapposte, ma forse tutte accomunate da qualcosa. Avevo poco meno di dieci anni quando con le mani fasciate, intrise di magnesio e i calli aperti dalle parallele speravo di non sbagliare le note sul pianoforte, a quel concorso pianistico. Ero un piccolo giunco sparuto, e ogni traguardo, emozione o vittoria dei miei tanti, credo troppi, campi d’azione non è mai stato goduto con serenità, gioia, o soddisfazione. Non poteva esserlo, per numerosi motivi. Come se tutto ciò che ero stata in grado di raggiungere e di strappare a un presente non facile, non fosse per me o non fossi io a guadagnarlo. Come quei piccoli soldati del mai abbastanza che non si fanno domande, perché sanno
che è il loro dovere, il loro giusto, la loro felicità, perché specchio della felicità di chi hanno accanto, quella, al di là di ogni cosa per loro arriva sempre prima della loro, anche prima della vita. Per tenere tutto insieme. Perfettamente. Così come i Mondiali in Francia, così come l’entrata nell’Arma. Tappe della mia vita a cui sono profondamente grata ma che forse nemmeno oggi sento miei. La mia prima grande vittoria, intesa come vincita della vita su qualcosa che non le assomiglia, è stato veder nascere il mio progetto, e l’uscita del libro, dopo un lungo lavoro. Vite preziose che parlano, per creare altra vita e altre occasioni. Una tappa in più del mio viaggio, sogno dei sogni, iniziato due anni fa, in piena pandemia. Un piccolo fagotto di storie, venuto alla luce, insieme a me, dopo due anni di semina dalla nascita di Storie di Lana.

3) Prima di addentrarci tra le pagine del suo libro edito da Albatros, le chiedo di spiegare ai nostri lettori cos’è il progetto “Storie di lana” e com’è nato.


Storie di Lana è un luogo di disarmo. Un progetto di cura e di ascolto, dove attraverso la parola e l’espressione artistica ognuno ha la possibilità di raccontarsi senza giudizio, e lasciare, in un luogo di coccola e protezione, al sicuro, qualcosa di sé. Fuori dalle sbarre sociali e temporali, genere, cultura, nazionalità, e conto in banca. Un progetto sensoriale che coniuga scrittura e manualità. La parola si fa fisica, e il processo autobiografico che sonda i fondali per darsi respiro, per poi riscendere e risalire infinite volte verso la superficie, annoda i propri fili a chiunque voglia cercarsi e ritrovarsi, riflettere e creare. Perché sei importante, perché sei ispirazione. L’introspezione e l’arte, tangenti nei loro punti di rottura, dialogano, e pensieri e mani che scavano nell’anima, nelle vite, nostre, altrui, ascoltate e percepite, riemergono dal buio. Dal sommerso, sì. Qualunque cosa abbiamo da dire, ogni silenzio che abbiamo da donare, ogni voce che là fuori aspetta di essere ascoltata trova rifugio nella lana, perché ogni voce resti unica all’interno di un’opera di vita preziosa. Mediante le nostre parole, quelle difficili da articolare ma che ci rendono ancora umani e le nostre mani, quelle che sanno uccidere ma sanno anche accarezzare, Storie di Lana crea uno spazio circolare e accudente. In uno scambio continuo tra dare e ricevere, donarsi e concedersi opportunità. Ogni giorno. Un luogo di tregua, di amore, dove nessuno possa sentirsi inutile, solo, ignorato. Dove non bisogna essere perfetti o vincere qualcosa. Se non la riscoperta di sé. Ognuno ha la possibilità di lasciarsi il mondo veloce e prestativo fuori dalla porta, mettere le pantofole e denudare il cuore, nei panni di sé stessi, a volte per la prima volta, a qualunque età, con la possibilità di uscire dalle proprie etichette e dai propri ruoli, cucire il proprio nome, vedersi, riscoprirsi inventori, artisti e scrittori, desideranti e artefici della propria opera. È così che ci si può abbandonare, con un po’ di coraggio e fiducia, affidando una parte di sé, al materiale che sceglie, sapendo che può ritornare e ritrovarlo, feltro e materiali da riciclo coccolano l’indicibile, evocano momenti della propria storia, del proprio non detto, del futuro. Storie di Lana, in un presente fortemente individuale e individualista, crea incontro che parte dal sé e si protende all’altro, che al contempo non si dimentica di chi è e sceglie, ci prova, delimitando ed estrapolando qualcosa che per troppo tempo ha ignorato. Fissiamo il momento, e alla morbidezza della lana affidiamo la durezza della vita. Usando i sensi, le lacrime, le emozioni, srotolando gomitoli e srotolandoci con essi, noi, ci diamo spazio. Noi, lana da cardare, attorno a un fuoco, ci guardiamo e ci raccontiamo. Denunciamo, inorridiamo, amiamo. Con coraggio, rispetto reciproco e ammirazione nei confronti di vite che non conosciamo. Capaci di accettare, ma anche di non condividere. Ci riscopriamo. Anime e miniere d’oro, troppo spesso lasciate chiuse nel buio perché nessuno resti accecato: è in quella polvere che ci domandiamo. Storie di Lana è viaggio, scoperta, resa e attesa. Soli ma non da soli. Oltre la paura e il dolore. È un progetto vivo, nato piccoletto, ma dal cuore grande, che col tempo si è fatto spazio nel mondo del web, entrando nelle case, uscendo dal virtuale e incontrando le persone: ha raggiunto scuole, quartieri, mercati, strade, centri d’accoglienza, periferie, parchi, librerie, luoghi dimenticati.


Cresce ogni giorno grazie alle voci che si affidano a noi e alle testimonianze preziose che raccoglie col suo progetto interno, Ma io ce l’ho fatta, storie di vita strappate alla violenza. Storie di Lana è nato tra le mie mani dopo aver peregrinato per decine di traslochi e impossibili venti, maturando da solo, per una vita intera, attento al mio racconto, forse più di me, attento a tutto ciò che ho raccolto in questi anni, frutto dei miei silenzi, delle mie esperienze e dei miei studi, delle mie influenze artistiche e culturali. È arrivato da solo, e come frutto maturo si è lasciato a me, a fine aprile 2020, in un periodo di forte tempesta. Dovevo mettere da qualche parte, al sicuro, qualcosa che per l’ennesima volta non aveva senso, e sentivo di doverlo accudire, magari utile a qualcun altro che avrebbe potuto averbisogno. Per dire, a gran voce, là fuori: non sei solo, non sei sola. Ti regalo la mia storia su qualche centimetro di lana, perché è nelle piccole cose, che ci perdiamo. Perché sono quelle, forse, che hanno più valore.


4) Nel libro di cui è autrice “L’amore non cura, l’amore si cura” c’è una frase: “La storia di una donna può fare la differenza nella storia di una bambina, una ragazza, un’altra donna”. La frase poteva terminare così, o meglio per molti e per molte sarebbe dovuta terminare così. Invece lei aggiunge, dopo un punto che racchiude molto di più di una sospensione “Un Uomo” e la frase diventa: “La storia di una donna può fare la differenza nella storia di una bambina, una ragazza, un’altra donna. Un uomo. Chiunque legga”. Sa che questa prosecuzione non è scontata? Quanto è importante parlare a tutti oltre che a tutte quando si parla di violenza domestica?

Purtroppo, so che non è scontata, e non è sempre facile accettarlo. Per quanto sia limpido che la vita prosegua oltre quel punto, che sottolinea e include e non chiude, per molti e per molte, non lo è. E con rammarico, sottolineo molte non a caso. Parlare al di là del genere, ascoltando con volontà di comprensione e sospensione di giudizio, oltre la continua dicotomia uomo – donna, carnefice – vittima, mostro-poverella, che ci piace tanto, perché ci parla alla pancia, gabbia dentro la quale ci barrichiamo, in una lotta sterile che ci immobilizza, rassicura, abitua e assuefà, sia la base per poter costruire, mattoncino per volta, case sicure, e un presente che includa, che prevenga, che parli alle persone in quanto persone, sin dalla tenera età. Nelle case, nelle scuole. Coinvolti. Ce ne rendiamo conto troppo tardi, quando siamo in emergenza, lì dove invece è necessario che le strade si dividano.
Ma poi? Ma prima? Quanto serve sensibilizzare e formare le donne, se gli uomini vengono lasciati soli. Quanto serve pretendere che le donne parlino, denuncino, reagiscano, e non muoiano, se un sistema intero arranca e fa acqua da tutte le parti. La giustizia, governata dagli esseri umani, si corrompe facilmente dietro cavilli, partite a scacchi e poca onestà intellettuale, più facilmente di quanto non si creda. E intanto, fuori dalle conferenze ben schierate e dai salotti dei godimenti, si muore. Allora partiamo dal basso. Da noi, dove s’è perduta la nostra parte? Responsabilizzarci sui gesti e le parole che scegliamo, a partire dalla quotidianità, quella dei sette centimetri che crediamo banali e insignificanti, smuove una cultura che stagna su un divario di genere abissale, che più si erge a migliore dell’altro e di altro, più perde di umanità e di preziosa occasione di costruire e ri-costruire insieme una sensibilità comune, umana. Nella dimostrazione di superiorità di una parte sull’altra si perde, come esseri umani. Inebriati dal continuo appiattimento delle differenze, spacciato per uguaglianza, combattiamo e annientiamo noi stessi. La violenza si combatte con la parola e con la cultura all’affezione. Forse è così, a prescindere dal genere, che si impara a guardarsi reciprocamente, a rispettarsi, a dirsi e a dire la verità. Imparare a conoscere noi stessi e lavorarci su ogni giorno ci permette di non perderci nell’altro. Conoscere i propri bisogni e le proprie emozioni, imparare a fare i conti col concetto di limite, di amor proprio, di autonomia, di delicatezza e grazia nel trattare l’altro, sin da piccoli, crea giorno dopo giorno un presente più utilizzabile. Educandoci all’emotività. Ma la guerra delle parti ci dà sicurezza di azione e potere, ci tiene al sicuro. Di certo non è alzando i muri,che le donne, noi tutte, smetteremo di morire. Allora magari iniziamo ad ascoltarle, queste donne, questi bambini. È per questo che è necessario aprire il ventaglio d’azione, oltre l’odio, e affondare le mani lì dove ci fa paura. Magari se apriamo una di quelle porte dove si nasconde la violenza, invece di scappare e giudicare, santi e benpensanti, potremmo capire qualcosa in più. Insieme. Scalfendo il muso duro della pazzia e della colpa. Mettendo in discussione tutto ciò che crediamo normale, abitudinario, e che si è sempre fatto così. Ho un milione di domande aperte, che non hanno ancora risposta. Siamo a lavoro.


5) Nel capitolo “Coinvolti. Tutti quanti” la protagonista esordisce con la frase “Ho imparato a lottare che non avevo neanche un’età”. Qual è la storia che, fino ad ora, l’ha colpita o coinvolta maggiormente e perché?


Coinvolti, tutti quanti è un vero e proprio inno del nostro pensiero. Sono tante le storie a cui sono legata, in L’amore non cura, l’amore si cura ne sono custodite poche, in fondo, è stato difficile sceglierle, sono solo un centinaio, e forse quella a cui sono più legata è rimasta fuori. A oggi contiamo quasi cinquecento storie, tra Storie di Lana e Ma io ce l’ho fatta. Venni al mondo, Piccole Ali, Il rocchetto col tuo nome, Lettere di un manicomio, Una Vita così… il punto di vista dei bambini, in
Storie di Lana è fondamentale. Tra quelle pubblicate in questo primo libro, mentre ci penso, c’è una storia in cui si tocca con mano qualcosa che lascia spezzati: il peso di un portone. La storia di Adele esplode in un dolore generazionale, una donna straniera in terra italiana, in cui il tentativo di una madre di dire a sé stessa che non è normale ciò che sta vivendo, dilania chi legge. Ci prova con tutte le forze, a reagire e a dare spazio a sé, a sua figlia di appena sei giorni, cercando di scappare dalla casa della suocera dove è segregata e mal vista. Ma il coraggio di cambiare e la speranza di cambiamento, sono due facce soffocanti dello stesso peso tenuto al collo. È più facile insabbiare e insabbiarsi, che vedere e vedersi.

6) Per Vittiglia, una delle protagoniste, il senso della vita è: “Non vivere nella paura”, e per Anastassìa?

Vittiglia ci ha visto lungo. Andare a dormire senza avere paura non è cosa da poco, così come sapere che le tue fragilità, le tue scelte, i tuoi desideri non saranno mai la posta in gioco della tua vita, nelle mani di qualcun altro. Avere la libertà di scegliere, di sbagliare, ed essere amati comunque, accarezzati costantemente dalla mano che scegli, che ti ha scelto e di cui ti fidi, senza essere puniti e abusati è qualcosa che Vittiglia ha strappato dal suo presente. Un sorriso buono e sincero, due piedini piccoletti. Smacco alla morte. Per me? La gentilezza. Avere il coraggio di prendersi cura della propria psiche, ed emergere per quel che si è: è forse questo il senso motore di tutto.


7) Oltre che dall’intero libro, che ha la potenza di un urlo sovraumano e la delicatezza di uno schivare di libellula, mi ha colpito una frase “A piangere sulle bare abbiamo sempre gran talento. Ad accettare che qualcuno prenda coraggio per cambiare il corso delle cose no”.
Entriamo nel vivo del fenomeno, cosa non si sta facendo o cosa non sta funzionando nella lotta contro la violenza di genere?


A piangere sulle bare abbiamo sempre gran talento, purtroppo ne sono sempre più convinta. A cose fatte facciamo spallucce, davanti a ciò che non ci tocca ci giriamo dall’altra parte. Vediamo, ma oltrepassiamo. Nei casi peggiori neghiamo, distorciamo. In maniera pericolosa. Credo che si tratti, come dicevamo prima, di qualcosa che sta a monte rispetto a ciò che si fa o non si fa a valle in contingenza. Riguarda quanto conta per noi l’investimento sulla nostra anima, sulla conoscenza di noi stessi, delle nostre fratture e del nostro vissuto per non nuocere alla vita degli altri, se non a noi, per stare al mondo al meno peggio possibile, nella nostra versione più autentica, e alla fine, serena.
Possiamo tutti. Ognuno con i mezzi che ha. Non ho voglia di dire s’è fatto tanto ma ancora c’è da fare. Perché è ovvio che sia così, ma dopo che ce lo siamo detti, poi? Ho voglia di una domanda, e di farla ogni giorno, che riguarda costantemente sé. E tu, che cosa stai facendo? Come crei un presente migliore e come influenzi gli altri col tuo stare al mondo? L’educazione, in maniera più ampia la si pensi, è una delle risposte alle tante domande.


8) Riporto: “Il femminismo a cui siamo abituati o urla o ti bolla incapace, ma se il femminismo, se fosse solo questo, perché è questa la soluzione con cui ci proteggiamo, non sarebbe mancante? […] Ci sono donne più aggressive degli uomini e uomini più dolci delle donne.


Odiano il maschilismo, ma molte combattenti lo sono diventate”. Qual è secondo lei la giusta misura e il giusto mezzo per percorrere la strada verso la parità, quella vera?
Il giusto mezzo sta forse nel riconoscerci fragili. Nell’imparare dalla storia, dalla nostra storia, e non dimenticarcela appena ne passa l’orrore, l’odore. Nell’analizzare cosa ancora c’è da fare in modo semplice e pratico, per capire dove siamo arrivati con le nostre battaglie sui diritti. Non scontati, non per sempre e non per tutti. Il tempo storico non aiuta. Ma il tempo storico lo creiamo noi, e da lì, non si sfugge. Non so quale sia la giusta misura, francamente, so che fare il meglio possibile per conoscere sé stessi e non farsi la guerra a vicenda sia l’unica cosa in cui credo. Come? Ponendo l’attenzione sulla propria, singola responsabilità. Come racconto in Un femminismo non l’unico, non è l’estremismo che giova a questo presente. Ma il senso critico, perso in qualche retrovia del dolore e delle battaglie. Nell’omertà e nelle torri d’avorio. Noi donne, in prima linea. Ci metto sempre per prime nella critica delle parti, dovremmo ricordarcelo e ricordarlo ai nostri piccoli, quanto le divisioni e l’egemonia di un solo pensiero massificato sia pericoloso, ancor di più nelle tematiche di genere.
Attenzione a barricarci nelle torri d’avorio, al contrario, non sono forse quelle che ci hanno tenute lontane per secoli dalla vita politica, dal mondo del lavoro, dal diritto di essere trattate in quanto persone, lavoratrici, e non succubi e dilaniate perché donne? Guardo il presente e purtroppo mi piange il cuore. Cerco di porre l’attenzione su una grande intolleranza che confonde e scombina le carte, anche quelle mosse dai migliori intenti, non c’è un solo modo per essere femministi per essere ascoltati, creduti… Finiamo per diventare come ciò che combattiamo, guardiamo l’abisso e diventiamo come lui. E l’abisso non è l’uomo, il maschio, ma il potere che abbiamo dato al patriarca e il suo sistema, potere spropositato che si è preso con tutte le scarpe. Togliere terreno fertile alla paura, che mina ogni campo della nostra esistenza, paura che qualcuno possa essere migliore di noi, che possa mettere in discussione pietre miliari del nostro passato e del nostro qui e ora, e che possa darci un punto di vista che non abbiamo preso in considerazione perché non abbiamo tutti gli stessi occhi e lo stesso vissuto, e trovare spunto lì dove abbiamo perso la nostra delicatezza come esseri umani, credo sia forse più vitale che urlarsi contro. Che le urla servono, è vero, ma forse non ovunque e non sempre, e soprattutto non giovano allo stesso modo tutte e tutti.


9) È la prima volta in cui vorrei concludere un’intervista con una frase del libro, ma poi ne scovo un’altra di eguale potenza… Tuttavia, bisogna scegliere…dicono. E per oggi, concludo con questa frase di “L’amore non cura, l’amore si cura”, ringraziandola Anastassìa per la sensibilità e il coraggio insieme, che la contraddistinguono in ogni passo, letterario e non: “Ferro non si ammorbidisce sbattendo sopra altro ferro, con altre spranghe, con altro freddo. Si torce col caldo, se apri, se sposti, se lavori sulla materia giorno e notte e lasci riposare altri giorni e altre notti”.


Grazie a lei per avermi dedicato queste parole, e per aver concluso questa intervista con il senso profondo di “Ma io ce l’ho fatta”. L’amore che scalda, nella lotta alle nostre anime cinte da fil di ferro. È proprio di questo che parliamo, di calore che torce. Calore umano che manca, ovunque.
Uno semplice e profondo che abbraccia le nostre paure e ci fa crescere. Chi ancora si ricorda della cura e della reciprocità, della delicatezza e del calore, non se ne deve vergognare, siamo tanti atenderci la mano, un po’ nascosti, un po’ spezzati. Dovremmo darci spazio. Grazie a voi, per questo nido delicato e dedicato a me, grazie per la fiducia regalatami in un presente non facile.
Spero che questo nostro libro e il nostro progetto possa entrare in più case possibili, che la tenerezza non faccia più così paura. È anche grazie a voi, se questo oggi è possibile. Tengo stretta la vostra mano tesa. Il buio, insieme, fa meno orrore. Cercando il più possibile, come possiamo e riusciamo, di diventare persone migliori ogni giorno.

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