
“Lettere dal Myanmar”: un libro commovente che racconta la lacerazione di un paese dimenticato
Perché alcuni conflitti fanno notizia e altri no? Perché ci sono guerre che vengono raccontate ogni giorno, ora per ora, e altre che raramente “si guadagnano” un articolo o un servizio televisivo? Chi, nella giungla mediatica dell’atlante geopolitico, stabilisce le notizie più o meno importanti? La risposta, anche solo a una di queste domande, potrebbe aiutarci a comprendere il silenzio su un conflitto sanguinoso e violento come quello che sta lacerando il Myanmar dal 2021, quando i militari presero il potere con un colpo di Stato guidato dal generale Min Aung Hlaing.
Due anni fa, esattamente il primo febbraio, il governo civile di Aung San Suu Kyi venne rovesciato e la stessa arrestata insieme al Presidente Win Myint, unitamente agli altri vertici e ai rappresentanti della Lega nazionale per la democrazia. In tutto il Myanmar, la reazione al colpo di Stato non si fece attendere: migliaia di cittadini si unirono in una protesta pacifica che invase le piazze e le strade. Un movimento che ha pagato sin da subito le conseguenze della sua “disobbedienza” con una repressione che ha causato un numero di vittime che si aggirerebbe attorno alle 30mila, secondo l’Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project).
A distanza di due anni, si fanno i conti con le azioni di una Giunta militare spietata che si è resa autrice di quattro esecuzioni capitali; di contro una protesta portata avanti dalle Forze di difesa popolari e dalle milizie armate regionali, più comunemente note come eserciti etnici. Una guerra che un noto quotidiano nazionale ha definito come la più sconosciuta e lunga al mondo, una guerra che ha spazzato via le speranze di pace iniziate con il passaggio a un Governo civile nel 2015. Mentre sull’ex leader Aung San Suu Kyi pende una condanna a 26 anni di detenzione, c’è chi ha scelto di puntare il faro dell’informazione sul Myanmar, attraverso una mostra fotografica e un libro, il cui contenuto è racchiuso in questa frase: “Una storia inventata basata su fatti e persone reali. Un racconto senza censura di ciò che è accaduto e sta accadendo in Myanmar”.

Sono le parole di Stefano Lotumolo, fotografo (www.stefanolotumolo.com) e fondatore dell’associazione Radici Globali (www.radiciglobali.org) fortemente impegnata nel sociale, che ha raccolto sul confine thailandese con il Myanmar, le testimonianze drammatiche degli esuli birmani, lanciando un coraggioso e angosciato appello: “È importante che il mondo sappia cosa sta accadendo, dobbiamo dare voce al popolo Birmano”. Lo scrittore a cui è stata affidato l’importante e delicato compito di riprendere le testimonianze, rielaborarle per raccontarle, senza mai snaturarle, è Mario Mari (www.mariomari.it). La sua penna ha fatto da tramite tra le risorse fotografiche e scritte messe a disposizione da Stefano Lotumolo e Tay Zar, e la necessità di trasportare fatti, emozioni, drammi, distanze, separazioni, dentro le pagine del libro “Lettere dal Myanmar”.
Per Intersezionale abbiamo intervistato lo scrittore Mario Mari, autore di questo toccante, quanto indispensabile, lavoro.
Come nasce questo progetto editoriale?
Nasce da un’intenzione: far breccia nel muro di silenzio sceso sulla Birmania.
Ed occorre dir grazie all’instancabile lavoro del fotografo Stefano Lotumolo che, dopo essersi recato lì nel 2018 ed aver ritratto la bellezza di cui scrivono i poeti, si è stupito che a seguito del golpe nessuno parlasse di Birmania. Così è andato a Mae-Sot, al confine tra la Thailandia e la Birmania, dove vivono migliaia di esuli ed ha insistito affinchè io creassi un’opera basandomi sulle testimonianze raccolte.
Lì ha incontrato anche Tay Zir, il fotografo birmano le cui foto ritraggono la rivoluzione fin dal suo scoppio nella capitale, Yangon.
Perché ha scelto la forma della lettera?
La lettera mi permette di esser diretto, chiaro e di adottare un linguaggio semplice e fruibile.
Genera complicità col lettore che si trova a dialogare in termini amichevoli sia con un monaco costretto a scappare dal paese che, in opposizione, con una guardia il cui intento è ristabilire l’ordine.
Mi ha colpito molto il rapporto e al contempo la differenza nel concetto tra l’oppressore e l’oppresso che anima e diversifica le lettere. Vuole spiegarcelo?
La differenza è così sconfinata da risultare invisibile e questo lo si evince nel testo, dal rapporto e dall’ incontro dei due protagonisti dell’opera: il Monaco e la Guardia.
Sono di partenza ai due poli opposti: uno ha votato la sua vita all’Amore e l’altro alla sua distruzione.
Ho voluto raccontare, senza ipocrisie, il pensiero di quello che siam soliti evitare: l’oppressore.
Poi si parla molto di pace e di guerra e l’ho fatto anche io, riconoscendo i conflitti che mi abitano, accogliendo la parte di me che opprime e canalizzando il tutto nel personaggio della Guardia.
Basta poco a diventare ciò che si odia, basta evitare di perdonarsi.
Ed i due, monaco e guardia, oppresso ed oppressore, sul finale forse riusciranno a far qualcosa di meraviglioso ed inaspettato.
Che ruolo ha la parte post-scriptum che segue alcuni contenuti del libro, quale intento vuole rappresentare?
Quando si saluta qualcuno, ma si avrebbe il desiderio di stare ancora insieme ci si trova a dir qualche parola in più.
Uno dei post- scrittum che preferisco invita il lettore ad uscire e passeggiare, respirare a pieni polmoni l’aria e ringraziare l’universo per aver la possibilità, forse non colta, di vivere.
In una delle presentazioni del libro, ha affermato che l’obiettivo di questo lavoro è quello di “Seminare una coscienza”. Un’ambizione nobile, ma anche molto elevata. Come procede, quali sono le reazioni dei lettori?
I lettori ritengono che l’opera sia forte, nuda, vera. Trovi che la mia sia un’ambizione elevata, eppure la semina avviene su un suolo arato e la terra è la cosa più bassa che c’è. Il mio obiettivo è sempre davanti a me, all’altezza degli occhi di ognuno, per questo sono scrittore.
Procede bene, è ancora possibile godere di orizzonti sconfinati. Recentemente sono stato in Africa e sì, è di gran lunga possibile…
Ai primi di febbraio, Tom Andrews, relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, ha denunciato con forza che «La giunta del Myanmar – lo State Administration Council (SAC) – è illegale e illegittima» e ha chiesto alla comunità internazionale di «Negare la legittimità del SAC, creare una coalizione di Stati membri per applicare sanzioni forti e coordinate contro il SAC e sostenere il National Unity Government (NUG) che ha una maggiore pretesa di legittimità» (Greenreport). È un segnale che qualche riflettore si è acceso?

Occorre fare un’analisi sul senso delle fonti dalle quali provengono le informazioni.
Io sono uno scrittore dedito alle belle idee ed un operaio pronto a far le cose che servono alla sua vita, Tom Andrews è un relatore dell Onu e fa parte della campagna che ha reso consigliere di stato Aung San Suu Chi e ha il suo studio di consulenza a Washinton DC.
Ha deciso di portare all’evidenza qualcosa che è chiaro: la giunta militare compie azioni illegali e illegittime. La sua idea sulle sanzioni rivolte verso i militari mi sembra un modo grossolano per perorare la guerra. Io mi sento un lavoratore ed uno scrittore, faccio fatica a batter le mani per questo intervento. Andrews ha senz’altro validissimi titoli di studio e la sa lunga sulla situazione geopolitica della Birmania. Del resto, se i riflettori esistono sono lì per essere accesi e qualcuno lo fa, li accende. La Sbam edizioni ed io abbiamo schiacciato un interruttore.
C’è da dire che due mesi fa, il 23 dicembre del 2022, quasi a due anni dal golpe, il consiglio dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha chiesto la fine delle violenze e forse qualcuno si è astenuto dal rispondere.
Mia intenzione è osservare cercando di permettere alla luce di filtrare tra le informazioni raccolte, del resto la storia va vissuta sulla pelle per essere compresa.
C’è una lettera, un passaggio del libro, a cui è più legato?
L’ultima lettera, senza dubbio l’ultima in ogni suo passaggio. Potrei dire che l’intero libro serve per arrivare a quella lettera. Eppure, ho goduto di tutto il processo creativo che mi ha portato alla realizzazione dello scritto in questione.
Secondo quale principio è passata la selezione delle immagini?
Sono state scelte da Stefano Lotumolo, dal principe birmano Michele Bellamy Postiglione che ha curato l’introduzione del libro e dallo stesso Tay Zir.
Hanno selezionato diciannove dittici fotografici che accompagnano la lettura del testo e costituiscono di per sé un materiale giornalisticamente di importanza internazionale.
È stato complicato trovare un fotografo sul posto?
Dev’essere accaduto, come tutto d’altronde.
La determinazione di Stefano l’ha portato ad incontrare Tay Zir ed Il coraggio di Tay Zir l’ha portato ad incontrare Stefano che si è fatto trovare pronto per divulgare il suo materiale passando per la mia penna.
Spieghiamo a tutti cosa significa il grido “WE MUST WIN”.
È uno slogan chiaro. Il popolo, dopo aver assaggiato per dieci anni e per la prima volta la democrazia, `ha deciso di volersela riprendere ad ogni costo. “Noi dobbiamo vincere”, dicono, e così si addestrano nella giungla per fronteggiare trecentocinquanta mila soldati che ogni giorno minano la loro libertà ed i loro diritti.
Qual è la situazione al momento e cosa possiamo fare per aiutarvi nell’amplificare la voce del Myanmar?
La situazione è pressappoco come l’abbiamo testimoniata, a sentire il fotografo birmano, davvero poco è cambiato da allora. Per aiutarci potete parlare della nostra causa alla gente e ti ringrazio Elena, perché state per farlo. Le persone potranno poi acquistare il libro, mi auguro che lo facciano.
Così sosterranno la causa birmana parlandone, dando energia a questa storia.
Ed anche incoraggiando la letteratura moderna. Il libro si può acquistare sul sito di www.sbamedizioni.com ed è possibile contattarmi all’indirizzo [email protected].