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bambini e scuola

Non insegnate ai bambini – l’infanzia è una cosa seria

Avevo nove anni, poco più o poco meno, quando decisi di scrivere una raccolta di storie. “Sei troppo piccola per pensare a queste cose” dicevano i miei malcapitati lettori, “le storie per bambini dovrebbero avere un lieto fine”. Avevano ragione: in quei racconti non vi era traccia di giovani principesse, né tantomeno di creature magiche che si affrettavano a minacciare la loro quieta esistenza. In compenso, c’erano tutti gli spettri delle inquietudini e delle convinzioni che avevo ereditato durante la mia infanzia: l’infaticabile tentativo di rispondere a canoni estetici illusori, la paura di inciampare in una strada diversa da quella conosciuta, la ricerca di un amore che, per avere il privilegio di essere definito tale, si traduceva in sofferenza.

Fu in quel momento che, forse, iniziai a pensare che le uniche creature che mi facevano paura davvero erano le ombre degli adulti e che l’infanzia è una cosa seria.

Come si apprendono stereotipi e pregiudizi

Facciamo un passo indietro. Il pregiudizio – dal latino praeiudicium, “giudizio anteriore” – è per definizione un giudizio che viene espresso, tramite atteggiamenti più o meno coscienti, prima dell’esperienza diretta. Ne sono vittima i gruppi sociali più vulnerabili come le donne, i membri della comunità LGBT+, i tossicodipendenti, le minoranze etniche e religiose. Tali categorie sociali possono tra loro intersecarsi, provocando episodi di intolleranza ancora più violente e difficili da sedare. Lo stereotipo – dal greco stereos “rigida” e typos “immagine” – esprime un insieme di credenze che un gruppo sociale nutre nei confronti di un altro. Nelle parole di Walter Lippmann, lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio, vale a dire la totalità delle rappresentazioni che, pur scostandosi dalla realtà, si nutrono e risiedono nella nostra mente. I processi cognitivi tendono infatti a semplificare il più possibile le informazioni che pervengono dal mondo estero, correndo il rischio di valutare i dati a disposizione attraverso parametri rigidi e resistenti al cambiamento.

Molti studi hanno come oggetto la popolazione degli adulti e degli adolescenti – relativamente recente è invece l’interesse verso i pregiudizi e gli stereotipi nell’età evolutiva.

I bambini individuano con estrema facilità le differenze in base alla loro percezione visiva. Attorno ai quattro anni, riescono già a riconoscere tanto l’appartenenza etnica quanto il sesso degli individui che lo circondano. Durante questa fase evolutiva, i bambini apprendono, al pari di ogni altro comportamento sociale, i bias cognitivi. In altre parole, imparano gradualmente a giudicare. A partire dai sette anni, le informazioni elaborate diventano sempre più complesse e i criteri di giudizio si moltiplicano: per fare un esempio, un bambino di dieci anni sarà in grado di collocare se stesso all’interno di un gruppo (ingroup), così come di indicare le differenze e le somiglianze in relazione agli altri gruppi (outgroup).

A sostegno di questa tesi, è significativa la ricerca effettuata dagli psicologi Kenneth e Mamie Clark nel 1940. Di fronte a due bambole di etnia differente, i coniugi dimostrarono come tre quarti dei bambini afroamericani sottoposti al colloquio prediligevano le caratteristiche etniche della bambola bianca, arrivando persino a discriminare il proprio gruppo etnico a favore di un altro ritenuto più autorevole. In un paese dilaniato dai pregiudizi razziali, i bambini avevano interiorizzato i valori della cultura dominante e ne erano diventati testimoni inconsapevoli.

Sulla base di questi studi, nasce la pedagogia interculturale allo scopo di comprendere le dinamiche che partecipano alla formazione degli stereotipi e delle discriminazioni razziali.

Perché dovremmo educare alle diversità

Esistono tre manifestazioni della diversità: le differenze somatiche, culturali e linguistiche. Non a caso, fin da bambini siamo soliti ritenere belli coloro che consideriamo più attraenti secondo i canoni estetici della nostra società o le cui caratteristiche risuonano con la nostra personale visione del mondo. Anche le differenze culturali, al pari di quelle linguistiche, possono condizionare il processo di socializzazione: una bambina di religione islamica incontra statisticamente maggiori difficoltà interpersonali rispetto a un individuo appartenente a un’altra confessione religiosa.

Tuttavia, scevri da ogni dogma o preconcetto, tutti i bambini possono accostarsi alle differenze con curiosità.

Stando all’ipotesi del contatto di Gordon Allport (1954), le interazioni tra gruppi diversi per sesso, etnia, orientamento sessuale, status sociale o altri fattori discriminanti consentono di scardinare significativamente stereotipi e pregiudizi. Non è quindi da trascurare l’importanza dell’ambiente scolasticopoiché il confronto con i coetanei può portare a sviluppare nei bambini una maggiore consapevolezza di sé e degli altri. Inoltre, i modelli affettivi di riferimento aiutano a filtrare le esperienze dirette attraverso le convenzioni culturali della comunità di appartenenza e le loro personali interpretazione del mondo. Frasi come “mio padre dice che…” o “tutti sanno che…” introducono spesso idee controverse riguardo le rotte migratorie, i diritti civili o altre tematiche di natura sociale. L’apertura nei confronti della diversità sarà dunque direttamente proporzionale agli stimoli positivi che riceverà dall’ambiente esterno. In un mondo globalizzato e perennemente connesso, non possiamo ignorare l’influenza che il cinema, la televisione e i social network hanno sullo sviluppo cognitivo. Pur essendo fautori di molteplici rappresentazioni iperboliche dei tipi umani, questi canali ci permettono di accedere, al di là dei limiti temporali o geografici, a un’immensa mole di informazioni dapprima inaccessibili circa gli aspetti culturali e sociali di individui differenti. Oltre la coltre di diffidenza dietro cui molti bambini si nascondono per paura o insicurezza, il desiderio di conoscere e sperimentare è tanto forte da suscitare innumerevoli domande sulla realtà circostante.

È compito degli adulti accogliere tali istanze, farsi carico dei loro dubbi, creare insieme a loro – e non per loro – uno spazio in cui coltivare se stessi e il rapporto con gli altri esseri umani.

Oggi, quando penso alle storie che non ho mai raccontato, o a tutte quelle che ho dimenticato quando ho compreso di essere diventata anch’io adulta come i miei lettori, mi torna sempre in mente una vecchia canzone. Insegnare ai bambini, parafrasando Giorgio Gaber, non significa imporre una morale stanca e malata, né avviare al bel canto, al teatro e alla danza a tutti i costi. Se proprio volete, cantava, insegnate soltanto la magia della vita.

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