
Non insegnate ai bambini – l’infanzia è una cosa seria
Fu in quel momento che, forse, iniziai a pensare che le uniche creature che mi facevano paura davvero erano le ombre degli adulti e che l’infanzia è una cosa seria.
Come si apprendono stereotipi e pregiudizi
Facciamo un passo indietro. Il pregiudizio – dal latino praeiudicium, “giudizio anteriore” – è per definizione un giudizio che viene espresso, tramite atteggiamenti più o meno coscienti, prima dell’esperienza diretta. Ne sono vittima i gruppi sociali più vulnerabili come le donne, i membri della comunità LGBT+, i tossicodipendenti, le minoranze etniche e religiose. Tali categorie sociali possono tra loro intersecarsi, provocando episodi di intolleranza ancora più violente e difficili da sedare. Lo stereotipo – dal greco stereos “rigida” e typos “immagine” – esprime un insieme di credenze che un gruppo sociale nutre nei confronti di un altro. Nelle parole di Walter Lippmann, lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio, vale a dire la totalità delle rappresentazioni che, pur scostandosi dalla realtà, si nutrono e risiedono nella nostra mente. I processi cognitivi tendono infatti a semplificare il più possibile le informazioni che pervengono dal mondo estero, correndo il rischio di valutare i dati a disposizione attraverso parametri rigidi e resistenti al cambiamento.

Molti studi hanno come oggetto la popolazione degli adulti e degli adolescenti – relativamente recente è invece l’interesse verso i pregiudizi e gli stereotipi nell’età evolutiva.
I bambini individuano con estrema facilità le differenze in base alla loro percezione visiva. Attorno ai quattro anni, riescono già a riconoscere tanto l’appartenenza etnica quanto il sesso degli individui che lo circondano. Durante questa fase evolutiva, i bambini apprendono, al pari di ogni altro comportamento sociale, i bias cognitivi. In altre parole, imparano gradualmente a giudicare. A partire dai sette anni, le informazioni elaborate diventano sempre più complesse e i criteri di giudizio si moltiplicano: per fare un esempio, un bambino di dieci anni sarà in grado di collocare se stesso all’interno di un gruppo (ingroup), così come di indicare le differenze e le somiglianze in relazione agli altri gruppi (outgroup).
A sostegno di questa tesi, è significativa la ricerca effettuata dagli psicologi Kenneth e Mamie Clark nel 1940. Di fronte a due bambole di etnia differente, i coniugi dimostrarono come tre quarti dei bambini afroamericani sottoposti al colloquio prediligevano le caratteristiche etniche della bambola bianca, arrivando persino a discriminare il proprio gruppo etnico a favore di un altro ritenuto più autorevole. In un paese dilaniato dai pregiudizi razziali, i bambini avevano interiorizzato i valori della cultura dominante e ne erano diventati testimoni inconsapevoli.
Sulla base di questi studi, nasce la pedagogia interculturale allo scopo di comprendere le dinamiche che partecipano alla formazione degli stereotipi e delle discriminazioni razziali.
Perché dovremmo educare alle diversità
Esistono tre manifestazioni della diversità: le differenze somatiche, culturali e linguistiche. Non a caso, fin da bambini siamo soliti ritenere belli coloro che consideriamo più attraenti secondo i canoni estetici della nostra società o le cui caratteristiche risuonano con la nostra personale visione del mondo. Anche le differenze culturali, al pari di quelle linguistiche, possono condizionare il processo di socializzazione: una bambina di religione islamica incontra statisticamente maggiori difficoltà interpersonali rispetto a un individuo appartenente a un’altra confessione religiosa.
Tuttavia, scevri da ogni dogma o preconcetto, tutti i bambini possono accostarsi alle differenze con curiosità.
Stando all’ipotesi del contatto di Gordon Allport (1954), le interazioni tra gruppi diversi per sesso, etnia, orientamento sessuale, status sociale o altri fattori discriminanti consentono di scardinare significativamente stereotipi e pregiudizi. Non è quindi da trascurare l’importanza dell’ambiente scolasticopoiché il confronto con i coetanei può portare a sviluppare nei bambini una maggiore consapevolezza di sé e degli altri. Inoltre, i modelli affettivi di riferimento aiutano a filtrare le esperienze dirette attraverso le convenzioni culturali della comunità di appartenenza e le loro personali interpretazione del mondo. Frasi come “mio padre dice che…” o “tutti sanno che…” introducono spesso idee controverse riguardo le rotte migratorie, i diritti civili o altre tematiche di natura sociale. L’apertura nei confronti della diversità sarà dunque direttamente proporzionale agli stimoli positivi che riceverà dall’ambiente esterno. In un mondo globalizzato e perennemente connesso, non possiamo ignorare l’influenza che il cinema, la televisione e i social network hanno sullo sviluppo cognitivo. Pur essendo fautori di molteplici rappresentazioni iperboliche dei tipi umani, questi canali ci permettono di accedere, al di là dei limiti temporali o geografici, a un’immensa mole di informazioni dapprima inaccessibili circa gli aspetti culturali e sociali di individui differenti. Oltre la coltre di diffidenza dietro cui molti bambini si nascondono per paura o insicurezza, il desiderio di conoscere e sperimentare è tanto forte da suscitare innumerevoli domande sulla realtà circostante.
È compito degli adulti accogliere tali istanze, farsi carico dei loro dubbi, creare insieme a loro – e non per loro – uno spazio in cui coltivare se stessi e il rapporto con gli altri esseri umani.
Oggi, quando penso alle storie che non ho mai raccontato, o a tutte quelle che ho dimenticato quando ho compreso di essere diventata anch’io adulta come i miei lettori, mi torna sempre in mente una vecchia canzone. Insegnare ai bambini, parafrasando Giorgio Gaber, non significa imporre una morale stanca e malata, né avviare al bel canto, al teatro e alla danza a tutti i costi. Se proprio volete, cantava, insegnate soltanto la magia della vita.